Leggo e rileggo il comunicato dell’editore e, lo confesso, continuo a non capire. Una sola cosa capisco: il licenziamento di Antonio Padellaro da direttore dell’Unità non dipende dal fatto che Padellaro non è abbastanza “multimediale”. Sgombero subito il campo da un paio di equivoci. Primo: sono molto affezionato al principio di autorità, nonché al motto lombardo “offelè, fa el to mestè”. Dunque riconosco agli editori il potere di nominare i direttori che più li aggradano e non penso affatto che l’umile collaboratore di un giornale debba metter becco nelle loro decisioni. Ma, siccome a questo giornale collaboro fin dal 2002, avrei preferito che qualcuno spiegasse ai lettori e ai giornalisti dell’Unità perché l’avventura di questo giornale morto nel 2000 e risorto nel 2001 grazie al duo Colombo-Padellaro, a una redazione tenace disposta a ogni sacrificio e a un pugno di editori coraggiosi debba concludersi così bruscamente e inspiegabilmente. Secondo: sono abituato a basarmi sui fatti e dunque non farò processi alle intenzioni, ergo non dirò una parola sul nuovo direttore, Concita de Gregorio, se non che è un’ottima giornalista e una persona squisita, che ho avuto modo di sentirla un paio di volte nelle ultime settimane, che mi ha garantito massima continuità e libertà, che le auguro i migliori successi.
Ma il punto è ciò che è accaduto finora, negli ultimi tre mesi sottotraccia e negli ultimi tre giorni alla luce del sole. Prima le voci. Poi l’intervista di Walter Veltroni al Corriere della sera che, all’indomani dell’acquisto dell’Unità da parte di Renato Soru, auspicava un “direttore donna”, cioè il licenziamento di Padellaro (che purtroppo è maschio). Lì s’è avvertita la prima, violenta rottura: non è usuale che un segretario di partito licenzi un direttore di giornale e indichi le caratteristiche del successore, specie se quel giornale non appartiene né a lui nè al suo partito. Se, nell’autunno del 2002, pur provenendo da tutt’altra storia e tradizione, accettai con gioia la proposta di Colombo e Padellaro, mediata dal comune amico Claudio Rinaldi, di collaborare all’Unità con una rubrica quotidiana, fu proprio perché l’Unità non era più un giornale di partito, ma un giornale libero, che rispondeva soltanto ai suoi editori, direttori e lettori. Infatti in questi sei anni mi sono sentito libero di scrivere in assoluta autonomia, senza mai subire le benchè minima censura. Ora quel fatto da troppi trascurato - l’intervista di Veltroni - comporta una svolta non da poco, un peccato originale destinato inevitabilmente a incombere sul futuro. Il secondo fatto è che l’uscita di scena di Padellaro segue, a tre anni di distanza e in qualche modo completa, quella di Colombo, l’altro direttore che aveva resuscitato l’Unità. E attende spiegazioni più plausibili delle chiacchiere sulla “multimedialità”. Il giornale va male? Pare di no, anche se paga le scarse risorse finanziarie (e pubblicitarie) e, politicamente, la grande depressione seguita al biennio della cosiddetta Unione al governo. Se dunque non è un problema di copie (la media giornaliera di 48 mila, con 274 mila lettori, è tutt’altro che disprezzabile, visti i chiari di luna, e speriamo di non doverla mai rimpiangere), è un problema “di linea”. Lo stesso che era stato sollevato nel 2005, quando fu allontanato Colombo.
Ora l’esperienza nata sette anni fa dalla straordinaria alchimia di questi due direttori, capaci di coinvolgere e coalizzare in una sorta di campo-profughi collaboratori delle più varie provenienze e culture, oggettivamente si chiude. Si finisce il lavoro e si completa il disegno avviato nel 2005, quando Furio fu defenestrato dopo mesi di mobbing praticato da ben noti ambienti Ds, insofferenti per la linea troppo autonoma, troppo aperta, diciamo pure troppo libera del giornale. Tre anni fa il disegno si compì a metà, magari nella segreta speranza che Antonio capisse l’antifona e riconsegnasse il giornale al partito che l’aveva ucciso. Padellaro, pur con la sua diversa sensibilità rispetto a Colombo, l’antifona non la capì. Continuò a scrivere e a farci scrivere in assoluta libertà. Beccandosi le reprimende più o meno sotterranee di molti politici del Pd e quelle pubbliche del Caimano. Il quale avrà tanti difetti, ma non quello di nascondere simpatie e antipatie. Lui i veri oppositori li riconosce subito e, a suo modo, li onora molto meglio di chiunque altro. Infatti, a dimostrazione del nostro successo, nei giorni delle ultime elezioni tornò a sventolare minacciosamente l’Unità additandola a nemico pubblico numero uno (chi sostiene che l’antiberlusconismo fa il gioco di Berlusconi, mentre le vere spine nel fianco del Cavaliere sono i “riformisti”, spiegherà forse un giorno perché lui abbia continuato a sventolare l’Unità, anziché Il Riformista o Europa, semprechè ne abbia notata l’esistenza). Ora, è evidente che la chiusura di questo ciclo non si deve a lui. E’ il padrone di quasi tutto, ma non ancora di tutto. Lo si deve a chi, nel centrosinistra, vedeva in questa Unità una minaccia. Salvo poi, si capisce, meravigliarsi insieme a Nanni Moretti se l’opinione pubblica latita (o forse, più propriamente, non trova sponde politiche, punti di riferimento, occasioni di manifestarsi e manifestare). Nell’Agenda Unica del Pensiero Unico del Padrone Unico, mentre la gran parte dell’opposizione dialogava o andava a rimorchio, l’Unità ha continuato a proporre pervicacemente un’altra agenda, un altro pensiero, un altro vocabolario. A dire le cose che, altrove, non si possono dire e a vedere le cose che, altrove, si preferisce non vedere. Nel paese dove, come ha detto efficacemente Gianrico Carofiglio all’Espresso, “da 15 anni Berlusconi è il padrone delle parole della politica”, perché “ha scelto lui i nomi con cui chiamare le cose e gli argomenti”, l’Unità portava ogni giorno in prima pagina altre parole, continuando ostinatamente a chiamare le cose col loro nome, non con gli pseudonimi berlusconiani e dunque “riformisti”: su questa Unità la guerra è guerra, non missione di pace; il separatismo è separatismo, non federalismo fiscale; il razzismo è razzismo, non sicurezza; il monologo è monologo, non dialogo; l’inciucio è inciucio, non riformismo; il regime è regime, non governo di destra con cui dialogare; i mafiosi sono mafiosi e i corrotti corrotti, non vittime del giustizialismo; i processi sono processi, non guerra tra giustizia e politica; le leggi incostituzionali sono leggi incostituzionali, non risposte eccessive a problemi reali; Mangano era un mafioso e chi lo beatifica non “fa una gaffe”: è come lui.
Mentre scrivo, ho appena letto l’addio di Padellaro. E mi tornano alla mente le nostre mille telefonate all’ora di pranzo (mi sveglio tardi) per decidere insieme la rubrica del giorno. Scambi di battute e trovate che nascevano cazzeggiando e ridendo fra noi fino alle lacrime e poi finivano regolarmente nel “Bananas”, poi nell’”Uliwood Party”, infine nell’”Ora d’aria”. Articoli che, come spesso ci ripetevamo, potevano uscire su un solo quotidiano: questo. Quello che dava il nome alle celebri feste estive, dalle quali sono bandito da quattro anni, pur scrivendo sull’Unità quasi ogni giorno da sei (ma ora han cambiato opportunamente nome). “Un giorno - mi diceva spesso Antonio, tra il serio e il faceto - me le faranno pagare tutte insieme, le tue rubriche, insieme al resto. Ma scrivi tutto, è troppo divertente. E poi, cazzo, si vive una volta sola…”. Ora che quel giorno è arrivato,mi sento soltanto di dirgli grazie. Per avermi sopportato, da gran signore e da liberale autentico, a suo rischio e pericolo. E’ stata una splendida avventura. Speriamo che continui ancora a lungo.
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