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mercoledì 2 luglio 2008

Pirati e sodomia? Una fantasia.

Pirati, armi improprie dei potenti.
(Valerio Evangelisti - Il Corriere della Sera) Philip Gosse riesce in un'operazione apparentemente impossibile: condensare in un numero limitato di capitoli un tema ampio che abbraccia diversi secoli e differenti quadranti del mondo, come la storia della pirateria. Lo fa con onestà, capacità di sintesi e chiarezza narrativa. Soprattutto, evita le seduzioni a cui si è prestata di recente certa saggistica, di matrice soprattutto libertaria, che ha scorto nelle «repubbliche dei pirati» (secondo la definizione di Hakim Bey, Le repubbliche dei pirati, Shake 2008) il regno dell'utopia, o addirittura della rivoluzione sessuale. Pure sciocchezze, visto che dai Fratelli della Costa fino a Jean Lafitte e oltre, per non parlare di tempi più remoti, i fuorilegge del mare hanno sempre unito, alle attività consuete di rapina, quella altrettanto fruttuosa di mercanti di schiavi.

Quanto alla libera sessualità, coincideva con quella dei bordelli. Le donne pirata, di cui tanto si è favoleggiato, furono in Occidente due sole, Anne Bonnie e Mary Read, trascinate in quella vita dai loro uomini e accettate perché si fingevano maschi (non dovevano essere tanto belle). E nemmeno è vero che tra pirati si praticasse liberamente l'omosessualità, come ha sostenuto B. R. Burg in uno studio pochissimo documentato ( Pirati e sodomia, Eleuthera 1994). La sessualità era libera con le prostitute, le schiave, le indigene caraibiche vendute dai loro mariti. Donne acquistabili, dunque. Si manifestava in forma di violenza carnale nelle città che i pirati riuscivano a conquistare, fossero barbareschi oppure filibustieri del Nuovo Mondo. Quanto alle pratiche omosessuali, erano quelle comuni alla vita di bordo, sotto tutte le latitudini. Ne facevano le spese soprattutto i mozzi, cioè ragazzini e adolescenti provenienti dai brefotrofi e imbarcati a forza. I filibustieri erano a volte omosessuali al largo, eterosessuali a terra.

Eppure la leggenda di una pirateria «liberatrice» ha preso piede, sull'onda di film di successo e dei vecchi romanzi salgariani. Va comunque detto che la composizione della Filibusta vi si prestava. Canaglie di tutto il mondo, certamente. La definizione di Marcus Rediker, autore del libro omonimo (Eleuthera 2007), è di sicuro appropriata. Rematori evasi dalle galere, eretici perseguitati, ex detenuti, disertori, contrabbandieri, fanatici e delinquenti. Un'umanità turbolenta, stretta da un solo ideale: arricchirsi in fretta, sperperare in fretta, e poi morire in fretta.

Philip Gosse evita le secche dell'idealizzazione a oltranza e, con rapidi cenni, riconduce il fenomeno piratesco alla sfera che gli compete: il banditismo. Al tempo stesso, non cade nell'anglocentrismo proprio di tanti autori inglesi e americani. Costoro hanno definito i primi decenni del '700 come l'«età d'oro della pirateria» soprattutto in virtù di un volume, firmato Capitano Johnson e da taluni attribuito a Daniel Defoe ( Storia generale dei pirati, edizioni Cavallo di ferro 2006), ricco di documentazione sulle gesta degli ultimi filibustieri inglesi della Giamaica. In realtà, se di «età d'oro» si vuole parlare, ci si dovrebbe riferire alla seconda metà del secolo precedente (come ha dimostrato Cruz Apestegui, in Piratas en el Caribe, edizioni Lunwerg 2000). Fu allora che i ladrones del mar del Nordamerica smisero di limitarsi a depredare i galeoni spagnoli di passaggio, e cominciarono a prendere d'assalto le più ricche colonie costiere, travolgendone le difese.

Fu l'epoca dell'Olonese, di Henry Morgan, di Roc il Brasiliano, di Laurens de Graaf. Forti, anzi fortissimi, perché incoraggiati dal Re Sole, in guerra con la Spagna. Nel XVII secolo venne meno, di fatto, la distinzione mai troppo chiarita tra pirata e corsaro. Se il secondo, all'epoca di sir Francis Drake, aveva goduto di una «patente di corsa» che quasi lo aggregava alla marina militare del suo Paese, i pirati, lungi dall'essere «liberi professionisti» della rapina in mare, quasi sempre godevano di una lettera d'incarico del governatore francese dell'isola di Tortuga o di quello inglese della Giamaica. A loro consegnavano, solitamente, il dieci per cento di quanto predato.

In definitiva, i pirati furono spesso strumento di guerre politiche combattute a distanza e con mezzi non convenzionali, e i loro momenti di declino coincisero con le fasi in cui le potenze committenti ritenevano di non avere più bisogno dei loro servigi. Il declino definitivo e irreversibile si ebbe poi agli albori del XX secolo, quando le navi, meglio difese, diventarono una preda troppo difficile per essere redditizia. Ciò non impedì che episodi di guerra da corsa si avessero anche durante il secondo conflitto mondiale, sia attorno all'Europa che in Asia, con comandanti di navigli militari o di sommergibili autorizzati dai comandi a navigare liberamente e ad affondare e depredare qualsiasi imbarcazione nemica incontrassero. L'introduzione del radar mise fine anche a questa estrema appendice, poco romantica, della pirateria.

Rimasero sul mare, invece, i contrabbandieri. A essa si può ascrivere la pirateria ancora esistente, che ha visto nel 2007 centinaia di assalti a yacht, cargo e persino petroliere, a opera di
gang organizzate dedite principalmente al contrabbando e attive sulle coste africane, cinesi, malesi oppure, ancora una volta, nei Caraibi. Sconcerta, in questo revival piratesco, l'estrema ferocia dei protagonisti, armati adesso di AK 47 e degli strumenti della moderna tecnologia.

I pirati del passato non erano meno crudeli degli attuali, e forse lo erano di più. L'Olonese che fa tagliare mani e piedi agli spagnoli catturati e, in un caso, divora il cuore di uno di essi sotto gli occhi dei compagni; Roc il Brasiliano che fa arrostire alcuni prigionieri e obbliga gli altri a nutrirsi dei loro corpi; Montauban che si diverte a sfilare le budella dal ventre di nemici ancora vivi. Non sono precisamente gesta da eroi libertari, né da Che Guevara in pectore; anche perché il fine, ossessivo, di tanta ferocia è uno solo: la sete di denaro.

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