banda http://blografando.splinder.com

giovedì 22 maggio 2008

L'omosessualità. La voglia di vivere. La malattia e la morte. Il figlio della Sontag parla di sua madre. Quel che resta di Susan.

E lancia un'accusa contro Annie Leibovitz. Colloquio con David Rieff.
(Enrico Pedemonte) Strano destino quello di Susan Sontag. Celebrata per i suoi romanzi, saggi (è appena uscito in Italia 'Nello stesso tempo'. Saggi di letteratura e politica, Mondadori), rispettata per il suo rigore intellettuale, amata in Europa più che in America per il suo femminismo e la sua radicalità, la Sontag è riuscita per tutta la vita a tenere nell'ombra la sua omosessualità come tutta la sua sfera privata. Dopo la sua morte, avvenuta nel dicembre 2004 all'età di 71 anni, quel velo di discrezione si è lacerato. Prima in modo chiassoso, quando la fotografa Annie Leibovitz, che per anni era stata compagna della Sontag, ha pubblicato alcune foto degli ultimi giorni della sua vita. Più recentemente è stato il figlio della Sontag, lo scrittore David Rieff (foto in alto), a far cadere ogni velo di riservatezza, raccontando in un libro, 'Swimming in a Sea of Death' (nuotando in un mare di morte), i nove mesi di malattia della madre. È un libro che racconta il dolore e il modo in cui il dolore cambia le persone.

Comincia nel marzo del 2004, quando la madre scopre incredula di avere una grave forma di leucemia, lei che nella vita ha già battuto due volte il cancro, prima al seno, poi all'utero. Poi scatta la sua reazione di intellettuale che si ribella alla morte, tenta un trapianto di midollo osseo, va incontro a incredibili sofferenze, muore senza essersi riconciliata con il proprio destino. Lei, che aveva fatto dell'onestà intellettuale e della verità una regola di vita, chiede a suo figlio, e a tutti quelli che la circondano, medici compresi, di assecondarla nella grande menzogna di poter sopravvivere. Alla fine, nelle pagine più laceranti - quasi insopportabili - del libro, il figlio fa allontanare tutti dalla stanza, toglie la camicia da notte alla madre morta e descrive il corpo ricoperto di piaghe, segno che il nuovo sistema immunitario si è ribellato al corpo ospite. "È un libro di domande", dice David Rieff, che ha 55 anni e abita a New York. Lo abbiamo intervistato in un caffè di TriBeCa.

Perché ha voluto raccontare la malattia di sua madre?
"Forse, se avessi potuto avere una conversazione con mia madre e dirle addio, non lo avrei scritto. C'è una frase che Simone de Beauvoir ha usato per il libro su Sartre: 'La cérémonie des adieux'. Ecco, questo libro è la mia cerimonia d'addio".

Sua madre disse ai medici di non essere interessata alla qualità della vita, ma a vivere. Lei cosa pensava di questa scelta?
"Ognuno ha il diritto di decidere sulla propria morte. Non si può dire a nessuno, neanche alla propria madre, come deve morire. Sapevo che stando alle statistiche non aveva molte probabilità di farcela e che sarebbe andata incontro a grandi sofferenze. Aveva sconfitto il cancro in altre due occasioni, ma adesso aveva 71 anni e quel tipo di leucemia le lasciava poche speranze. Dissi a me stesso che quella era la sua scelta e dovevo rispettarla. Il libro racconta le conseguenze di quella scelta".
Sua madre le chiese di non mentire. Ma lei scrive che in realtà non voleva sapere la verità. Come può esserne certo?
"Mi chiedeva continue conferme. Mi poneva interrogativi del tipo: 'Penso di essere più giovane della mia età biologica, vero?'. Formulava le domande in modo che io la assecondassi".

Si era convinta di potercela fare...
"Dopo il trapianto, quando i medici di Seattle le dissero che la leucemia era riapparsa, fu sinceramente sorpresa. Cominciò a urlare: 'Questo significa che sto per morire!'. Mi chiesi come potesse essere sorpresa: dopo il trapianto era stata tre mesi senza poter scendere dal letto, e in quel momento stava soffrendo in modo terribile".

Non le ha detto tutta la verità per aiutare lei, o se stesso?
"Se devo essere onesto fu anche un modo per cercare di essere meno coinvolto. Detto ciò, credo fermamente che lei mi abbia chiesto di assecondarla. Prima del trapianto, vista la decisione che aveva preso, ripeterle che le statistiche erano sfavorevoli sarebbe stata solo una crudeltà. E dopo il trapianto era troppo tardi".

Cosa l'ha indotta a descrivere con tanto realismo lo stato del corpo di sua madre negli ultimi momenti? È stato liberatorio?
"No, non amo le confessioni pubbliche tipiche della cultura americana. È stato difficile scrivere questo libro. Ci sono stati momenti in cui ho pensato di smettere e restituire l'anticipo all'editore. Ho rinviato a lungo la descrizione della trasformazione fisica di mia madre. Ma alla fine ho capito che dovevo farlo. Altrimenti non sarebbe stato un libro onesto".

Che cosa vuol dire onestà in questo caso?
"Mi chiesi come potevo essere sincero senza raccontare né la mia relazione con mia madre né la sua vita privata. Allora fissai un principio: avrei detto la verità su tutto quello che era successo nel periodo della malattia, ma niente di tutto il resto. Così ho dedicato solo una frase ad Annie Leibovitz e un'altra al difficile rapporto con mia madre. Ma non potevo evitare di parlare del suo corpo. Il mio è un libro sul corpo, e alla fine ho dovuto affrontare l'argomento".

Lei non vuole parlare delle foto di Annie Leibowitz. Ma può raccontare la reazione di sua madre?
"Quando Annie cominciò a scattare quelle foto, che poi ha pubblicato in un libro, mia madre era a malapena cosciente. Non credo che sia mai stata consapevole di quello che le stava capitando. La prima di quelle foto fu scattata quando la leucemia le era già tornata: lei era in barella mentre la stavano portando verso l'aereo per il ritorno a casa. L'ultima immagine è stata presa alla sua salma imbalsamata nella sala delle pompe funebri".

Quale fu la sua reazione?
"Io ero, e sono inorridito. Penso che sia stata una cosa ignobile".

Non poteva opporsi?
"Le dirò una cosa che non ho mai detto ad alcun giornalista: sono in parte responsabile per quelle immagini. Quando la salma di mia madre si trovava nella sala funeraria, quella dove vengono portati i newyorchesi della media e alta borghesia per essere imbalsamati, avrei potuto oppormi. Quando Annie chiese di entrare per fotografare, quelli delle pompe funebri mi chiamarono per avere l'autorizzazione. Mia madre e Annie avevano avuto una relazione complessa, si erano lasciate e rimesse insieme diverse volte, e io pensai che fosse suo diritto scattare quelle immagini. Era un'artista, e spesso gli artisti elaborano il lutto attraverso l'arte. Anche se io e lei non eravamo in buoni rapporti, non mi opposi. Ma se avessi saputo che avrebbe pubblicato quelle immagini, mi sarei comportato diversamente".

Lei crede che quando si muore ci siano degli obblighi verso gli altri?
"No, non credo che mia madre dovesse qualcosa a qualcuno. Ognuno ha il diritto di morire come vuole, con generosità o con egoismo. Ma questo non significa che non si paghi un prezzo. Uno dei prezzi che ho dovuto pagare è stato scrivere questo libro".

Il libro è stato un modo per dire a sua madre le cose che non ha potuto dirle da viva?
"In un certo senso sì. In quella situazione non ti puoi neanche permettere di dire a una persona che l'ami, almeno non con il tono giusto. Perché sarebbe come dirle che sta morendo, ma non puoi farlo perché lei non vuole saperlo. Ci sono cose che avrei voluto chiedere a mia madre, altre di cui mi sarebbe piaciuto discutere. E invece non ho potuto fare nulla di tutto ciò. Pur dopo nove mesi di sofferenze, dal punto di vista del rapporto con me è come se fosse morta in un incidente aereo".

Sua madre non ha mai accettato la fine che stava arrivando...
"Se ne è andata strillando contro la morte. Ma alla fine non ha sofferto molto, né fisicamente né psicologicamente, almeno secondo i medici. A un certo punto il corpo svanisce, si spegne. Ma non lo ha mai accettato. Il mio libro è la storia di una persona per la quale morire è come venire assassinati".

Perché ha deciso di seppellirla nel cimitero di Montparnasse, a Parigi?
"Lei non ha lasciato istruzioni, ha solo chiesto che alla sua cerimonia funebre fosse suonato uno degli ultimi quartetti di Beethoven. Ma questa era una sua vecchia fantasia, l'ho trovata anche nei suoi diari, nelle pagine dell'adolescenza. Quindi toccava a me decidere. Pensai che ci sono poche cose al mondo più brutte dei cimiteri di New York, quei campi spettrali nel Queens. Al contrario Montparnasse e Père-Lachaise sono molto belli, e Parigi era la sua seconda casa. Così le ho comprato un posto perenne a Montparnasse. Il sindaco di Parigi è stato molto gentile".


Lei sta curando la pubblicazione dei diari di sua madre. Che cosa le hanno rivelato?
"Il primo dei tre volumi, che sarà presto pubblicato, riguarda la lenta formazione della sua personalità. Va dal 1946 al 1964, cioè dall'adolescenza fino all'inizio del successo a New York, quando aveva 30-31 anni. Sembra quasi una storia ottocentesca, quella di una persona che viene dalla provincia e dedica tutta se stessa per diventare un 'grande' nel mondo delle arti. È sorprendente quanto sia riuscita a tenere riservata la sua vita personale: non ha mai negato nulla, ma ha sempre rifiutato di essere catalogata. Credo che abbia fatto un'allusione alla sua omosessualità solo in un profilo pubblicato dal 'New Yorker' dieci anni prima di morire. Nella prima parte del diario lei descrive il suo risveglio sessuale".

È stato un impegno doloroso per lei?
"Sì. Se lei non avesse ceduto i suoi diari alla University of California Los Angeles, creando così i presupposti perché diventino pubblici, non so se lo avrei fatto. Certo non ora. Ma lei ha deciso così, e io sono l'unica persona che conosce tutta la storia, quindi ho pensato che dovevo occuparmene. Ma non voglio pubblicità su questo, ho già detto agli editori che non darò interviste. Ho scritto una breve prefazione al primo volume, e lì c'è tutto quello che ho da dire".

Nel libro lei scrive che in certi momenti avrebbe voluto morire al posto di sua madre? Non le sembra un sentimento quasi innaturale?
"Lei amava la vita, la consumava, voleva andare in ogni ristorante, vedere ogni commedia, ogni film, ogni concerto, ogni museo che valesse la pena, e al suo confronto io mi sono sempre sentito una lumaca. Faccio molte cose, ma non ho mai avuto quel tipo di appetito per la vita. È come se lei fosse capace di fare un uso migliore del mondo. Chi sopravvive si sente in colpa, e manifesta questo sentimento in modo irrazionale e un po' psicotico".

Pochi mesi prima di ammalarsi, in un'intervista a 'L'espresso', sua madre disse che se Bush avesse vinto nuovamente le elezioni nel 2004, sarebbe stato necessario scappare dall'America...
"Non mi sorprende. Non credo che avesse completamente torto".

Come reagì quando Bush fu rieletto?
"Non credo che l'abbia saputo. Quell'anno, all'inizio di novembre, non era più molto cosciente".

Sphere: Related Content

Nessun commento: