(Roberto Barbolini - Panorama) «A Oscar Wilde, che posa da sodomita». Quando, giovedì 28 febbraio 1895, il portiere dell’Albermale club gli consegnò, con tanto di errore d’ortografia, l’offensivo biglietto del marchese di Queensberry, forse Wilde non immaginava di aver già profetizzato a rovescio la propria sventura in uno dei suo celebri paradossi: «La moderazione è una cosa fatale. Nulla ha più successo dell’eccesso». Smodato per partito preso estetico, oltreché per nascita irlandese, fu proprio a causa del suo successo nell’eccesso che Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde venne ipocritamente crocifisso ai valori del perbenismo e della moderazione da quella stessa società vittoriana di cui era stato il fascinoso animale da salotto, che lui divertiva con il suo spirito caustico e le pose da dandy anticonformista. A rovinarlo fu una passione travolgente, all’insegna di quella specie di amore «che non osa dire il suo nome», per un apollineo rampollo dell’aristocrazia: Alfred Douglas, Bosie per gli amici.
Si conobbero nel 1891, l’anno del Ritratto di Dorian Gray: l’attrazione di Oscar per Bosie sembra in effetti ricalcare quella di Basil per Dorian nel romanzo, inverando l’aforisma wildiano secondo cui la vita imita l’arte. Per Bosie, narciso bizzoso, lo scrittore perse subito la testa e, successivamente, la reputazione. Finché il padre del ragazzo, il rozzo marchese di Queensberry, si fece un punto d’onore di troncare quella relazione pericolosa. Dopo essersi presentato a una prima teatrale di Wilde con un allusivo mazzo di ortaggi, Queensberry gli spedì il famigerato biglietto in cui l’accusava di pose sodomitiche. Fu l’inizio della catastrofe.
Su istigazione di Bosie, Wilde querelò Queensberry e lo fece arrestare. Ma il dibattimento si ritorse contro di lui e, dopo due successivi processi, lo scrittore fu condannato per omosessualità a 2 anni di lavori forzati nel duro carcere di Reading. Wilde non sopravvisse a lungo alla sua dannazione sociale: morì a Parigi, il 30 novembre 1900, a soli 46 anni.
Ora gli atti del Primo processo di Oscar Wilde - Regina contro Queensberry sono resi disponibili in italiano dalla Ubulibri, a cura di Paolo Orlandelli e Paolo Iorio, che si sono basati sui verbali del processo, ritrovati nel 2000 alla British Library. Le risposte del divino Oscar sono sempre brillanti, ma suonano a tratti altezzose. Arroccato sulla difensiva, sente progressivamente avvicinarsi la catastrofe per amore della quale ha incessantemente cospirato contro se stesso.
Bosie, in quanto aristocratico, fu tenuto lontano dallo scandalo, ma a caldo difese l’amico in un articolo sul Mercure de France in cui, citando la pleiade omosessuale da Platone a Cellini, da Shakespeare a Michelangelo, si proclamava «fiero di essere stato amato da un grand’uomo e fiero di aver sofferto per lui». Riemerso dall’oblio soltanto nel 2002, l’articolo esce per la prima volta in Italia in appendice a Io e Oscar Wilde, le inedite memorie di Alfred Douglas curate da Orlandelli per le edizioni della libreria Croce.
E tuttavia, qui, il filisteismo morale dà luogo a un autentico voltafaccia. Il Bosie del 1912, offeso dalle accuse rivoltegli da Wilde nel De Profundis, non esita a screditare il suo vecchio idolo con punte di astiosa volgarità: «Mancava di umiltà esattamente come mancava di blasone»; «La fortuna di Wilde è dovuta al fatto che è stato in prigione e che ha scritto delle sconcezze».
Lo accusa addirittura di averlo plagiato, salvo demolirne l’opera (eccetto la Ballata del carcere di Reading), o definire superficiali i suoi aforismi. Senza capire che c’è molta più verità nella cosiddetta superficialità del vecchio Oscar che in tanta falsa profondità. Ha detto bene Jorge Luis Borges: ci si deve arrendere al «fatto documentabile ed elementare che Wilde, quasi sempre, ha ragione».
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