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giovedì 6 marzo 2008

Addio a Enrico Job il "settebellezze" della scenografia.

Il grande scenografo e costumista è morto a 74 anni. Marito della Wertmüller, ha lavorato anche nei suoi film.
(Masolino D'Amico - La Stampa) Mentre metteva in crisi l’Arte con la maiuscola contestandone i linguaggi (via il figurativo, via l’armonia, via la prosa elaborata), il Novecento recuperava le arti con la minuscola, ossia quelle cosiddette minori, regalando attenzione e dignità al cosiddetto artigianato: così oggi un piattino di Sèvres o un mantello da sera di Worth entrano nei musei, e i loro autori un tempo anonimi sono sacrosantamente additati all’ammirazione. E’ dunque ormai perfettamente lecito salutare in Enrico Job, che rinunciò a essere pittore, un grande artista del nostro tempo per la sua attività di costumista e scenografo teatrale e cinematografico, anche se egli stesso raccontava di averla intrapresa per ripiego.

Job era nato nel 1934 a Napoli, dove il padre, veneto e importatore di frutta nella Germania di Hitler, si era trasferito in fretta a causa del cognome di apparente origine ebraica; aveva trascorso l’infanzia a Napoli, e poi l’adolescenza a Milano. Precocemente divorato da una passione per il disegno, si era educato da sé copiando i maestri antichi dalle cartoline, fino a quando il padre rinunciò a fare di lui un geometra e lo iscrisse a Brera.

Voleva fare il pittore, ma entrò in una crisi profonda quando, ormai ventisettenne, si rese conto che il mercato non aveva molto da offrire a un anomalo come lui, appassionato di Beccafumi, del Parmigianino, e insomma della fredda sensualità dei Manieristi. Così con una decisione caratteristica della sua incapacità di compromesso, nel ’61 disse addio per sempre ai pennelli (in seguito avrebbe commentato a suo modo la moderna contestazione dell’arte tradizionale, con esposizioni di un elegantissimo neonichilismo inquietante e beffardo). Sul momento la rinuncia non fu liberatoria, anzi, ne seguirono anni di profonda infelicità se non addirittura di depressione. Non sapendo fare altro che disegnare, comunque, Job pensò al teatro, e cominciò a mostrare in giro bozzetti per costumi di spettacolo, così personali da risultare invendibili, almeno fino a quando non capitarono in mano allo scenografo e costumista Luciano Damiani. Riconoscendo un talento, questi invitò il giovane a lavorare con lui, e in seguito lo sfruttò, sia pure in un simpatico clima di bottega, per diversi anni. Come costumista in proprio Job debuttò alla Scala con una Semiramide di Rossini (1962), regista Margherita Wallmann, e continuò lavorando prevalentemente per il Piccolo di Milano, dove collaborò anche a celeberrimi spettacoli di Strehler come Galileo e Il gioco dei potenti nonché, in seguito, I giganti della montagna.

Due incontri successivi segnarono il decollo della sua personalità nel mestiere che ormai si era scelto. Il primo fu col coetaneo Luca Ronconi - vedi i costumi del 1968 per Riccardo III con Gassman e per Il candelaio, e quelli (con l’impianto scenografico) per Orestea di Eschilo (1972). Il secondo fu con la regista Lina Wertmüller, da subito sua compagna per tutta la vita. Il sodalizio con quest’ultima produsse scenografie per la prosa, per la lirica, e soprattutto per il cinema, dove Job aveva debuttato in punta di piedi (Spara forte... più forte... non capisco di Eduardo De Filippo, 1974) ma dove poi avrebbe dato corpo ad alcune delle immagini più indimenticabili dello schermo italiano di ogni tempo (alla rinfusa: il bordello di Storia d’amore e d’anarchia, 1973; il lager di Pasqualino Settebellezze, 1975; la cucina napoletana maiolicata di Sabato, domenica e lunedì, 1990).

Con la moglie, Job avrebbe firmato più di venti pellicole, nelle quali la sua presenza è così determinante da giustificare l’interrogativo sull’importanza della scenografia in uno spettacolo. Qui la risposta naturalmente non può che essere, «dipende dallo spettacolo». E’ vero tuttavia che in una famosa intervista Job stesso, rievocando la sua nutritissima attività - più di cento titoli tra prosa, lirica, grande e piccolo schermo -, disse di avere smesso di considerarla solo come un modo di sbarcare il lunario quando capì di potersi considerare coautore, alla pari col regista. In effetti, alcune sue concezioni sarebbero sembrate prepotenti - il lussuoso salotto da cinema americano anni trenta per la famigliola ebraica di Brooklyn in Vetri rotti, regia di Mario Missiroli, 1995; il grandioso repertorio di quadri e mobili antichi per il miserabile deposito di arredi da noleggio concepito da Eduardo per Le voci di dentro, regia di Francesco Rosi, 2004); in ogni caso, però, comunicavano una festosa, irresistibile felicità di invenzione.

Con alcuni registi, Lina a parte, Job ebbe un rapporto particolarmente costante e fecondo, in primis Mario Missiroli, da Verso Damasco, 1978 a Medea di Euripide (1996), ma poi anche con Mina Mezzadri, Francesco Rosi, lo stesso Eduardo. In un paio di occasioni curò egli stesso anche la regia dello spettacolo (le opere liriche Il trovatore, 1990, e Elisabetta regina d’Inghihlterra (1991). Da vero uomo del Rinascimento, infine - colto, curioso, disincantato, segretamente appassionato, umile verso il lavoro e orgogliosissimo della propria competenza - fu anche scrittore, di tre romanzi diversamente autobiografici, il più recente dei quali, Il cavallo a dondolo, è recentissimo (2006).

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