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giovedì 6 marzo 2008

Fisco&Gabbana. Quando gli stilisti sono evasori con poco stile.

Quell'evasore ha stile. Due milioni di multa a Dolce e Gabbana. Venti contestati a Ferragamo. I big della moda nel mirino degli 007 delle tasse.

(Paolo Biondani ed Emiliano Fittipaldi - L'Espresso) Era il 1994, ma sembra un secolo fa. Di Pietro era ancora pm, Berlusconi aveva formato il suo primo governo e in Procura a Milano cominciavano a sfilare gli stilisti. L'inchiesta - una delle ultime di Mani pulite - coinvolse quasi tutti i marchi più famosi del made in Italy, per chiudersi con pochi patteggiamenti, molte prescrizioni e alcune clamorose assoluzioni. Ora il fisco ha deciso di tornare in passerella. Con nuove accuse di evasione a due gruppi tricolori di fama internazionale: Dolce&Gabbana e Ferragamo.

Fisco&Gabbana
La prima accusa riguarda l'anno 2002: in quei 12 mesi, secondo il fisco, per Dolce&Gabbana era di moda il nero. A documentarlo è una sentenza del 21 febbraio scorso, che conferma i sospetti degli ispettori tributari su uno dei settori più controversi dello stratificato mercato della moda: i rapporti economici tra gli stilisti e le ditte-satellite che comprano i loro prodotti esclusivi e li rivendono perlopiù ad altri distributori commerciali, chiamati in gergo "stockisti". Al centro del caso c'è un processo tributario da 2 milioni di euro che riguarda la Sto.Tex srl, controllata all'80 per cento dalla Dolce&Gabbana Industria spa. Dopo una verifica in azienda, gli uomini dell'Agenzia delle entrate di Legnano contestano alla società "gravi omissioni" nella quantificazione delle "giacenze di magazzino": per gli accertatori la Sto.Tex non ha dichiarato nei libri contabili di aver rivenduto ben 126.679 prodotti di abbigliamento con il marchio D&G, che aveva in precedenza acquistato dalla casa-madre. Tutta quella merce che sembra sparita dai depositi, in realtà sarebbe stata rivenduta agli stockisti rigorosamente in nero. Un giro d'affari clandestino che avrebbe permesso alla Sto.Tex di nascondere redditi per 2 milioni e 445 mila euro. Per evitare una multa di quasi 2 milioni di euro (tra imposta evasa e sanzioni), la società presenta ricorso attraverso gli avvocati Dario Romagnoli e Giancarlo Zoppini, che fanno parte di uno dei più prestigiosi studi di commercialisti milanesi, quello fondato e tuttora guidato dall'ex ministro Giulio Tremonti.

Durante il processo, il 21 novembre 2007 i difensori chiedono un rinvio e tentano una conciliazione: la Sto.Tex accetta di aumentare le vendite dichiarate, ma solo per 28 mila prodotti, che corrisponderebbero a maggiori profitti per 342 mila euro. La società, inoltre, rinuncia a contestare di aver esposto costi per 97 mila euro in verità "indeducibili". L'Agenzia di Legnano, però, rifiuta di patteggiare: la verifica fiscale sulle effettive rimanenze di magazzino ha accertato lacune tanto "gravi" da far risultare "inattendibile tutta la contabilità aziendale". Quindi la Sto.Tex resta chiamata a pagare l'intera multa, senza sconti: a conti fatti, un milione e 940 mila euro. Il 30 gennaio 2008 i due professionisti dello studio Tremonti presentano una corposa memoria difensiva che addebita agli ispettori del fisco una presunta catena di errori clamorosi: l'agenzia avrebbe fatto confusione tra "capi" e "pezzi", calcolando come prodotti destinati alla vendita, ad esempio, ben 27 mila "accessori interni per abiti", che secondo l'azienda sarebbero "semplici etichette dei vestiti".

Il 13 febbraio i giudici dell'ottava Commissione provinciale di Milano (presidente Mario Piscitello) si ritirano in camera di consiglio: la sentenza dà completamente ragione al fisco. Le motivazioni spiegano che, "di fronte alla sussistenza e all'importanza delle criticità" denunciate dagli ispettori, la difesa della Sto.Tex "si limita ad affermazioni di principio non supportate da alcun elemento documentale". "Appare singolare", rimarca la sentenza, il fatto che che la Sto.Tex abbia "sottratto alla conoscenza di questo giudice tutti i documenti contabili ed extracontabili in suo possesso, su cui pure fonda in parte la sua difesa". Altrettanto strana sembra ai giudici la scelta di citare, nella "scrupolosa memoria" difensiva, solo alcuni "allegati", senza invece depositare l'intero verbale d'accusa. In conclusione, la sentenza riconferma l'intera multa e condanna la Sto.Tex a pagare anche le spese del processo. Ora la società controllata da Dolce e Gabbana può impugnare il verdetto in appello davanti alla Commissione tributaria regionale di Milano.

Ferragamo l'olandese
Dolce e Gabbana sono in buona compagnia. Anche la casa di moda Ferragamo, infatti, è finita nel mirino degli ispettori di Visco, che ipotizzano un'evasione fiscale - sanzioni comprese - superiore ai 20 milioni di euro. Il caso è intricato e registra sentenze contrastanti. Ma l'ultima puntata è stata sfavorevole al gruppo fiorentino. La sentenza negativa è firmata dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze, ma è probabile che l'esito finale della complessa vertenza sarà deciso solo in Cassazione. L'accusa ipotizza la cosiddetta "esterovestizione". Per uno stilista italiano sembra il colmo, ma si tratta di un sistema diffuso per eludere le tasse: una o più società riconducibili allo stesso soggetto economico dichiarano di avere la sede centrale fuori del territorio italiano, in modo da sfruttare tassazioni agevolate di altri paesi. Nel caso di Ferragamo, la holding è localizzata in Olanda. Il fenomeno degenera in illecito fiscale, cioè in esterovestizione, se il fisco riesce a dimostrare che all'estero in realtà c'è solo una sede formale, una facciata legale, mentre l'attività economica viene di fatto gestita, amministrata e diretta dall'Italia.

L'inchiesta sul gruppo Ferragamo era stata aperta dalla Guardia di Finanza di Firenze quando a dirigerla era il generale Andrea De Gennaro, da poco divenuto comandante provinciale a Roma. La holding di Ferragamo viene inizialmente messa sotto accusa per gli anni fiscali 1996-1999, ma i giudici fiorentini, in una prima pronuncia dell'ottobre 2005, senza entrare nel merito della vicenda, sottolineano vizi procedurali e dichiarano la nullità della notifica. Gli ispettori però non si arrendono, e ripetono l'identica accusa per il periodo 2000-2001. Stavolta la commissione, composta da altri giudici, entra nel merito e dà ragione agli esattori: la sede effettiva del gruppo non è in Olanda, ma nel nostro Paese, visto che perfino i più semplici ordini di amministrazione interna (come l'acquisto di toner e stampanti) vengono decisi da Ferragamo Italia. Riportando la residenza della holding al di qua delle Alpi, l'Agenzia delle entrate ora chiede non solo di versare in Italia tutte le imposte sul reddito complessivo della "esterovestita" (che pagava le tasse solo ad Amsterdam), ma anche di cancellare altri vantaggi ritenuti illegittimi: quando incassava i dividendi prodotti dalla società olandese la casa madre fiorentina pagava aliquote più basse di quelle italiane.

Se il caso Ferragamo è un classico esempio di giurisprudenza discordante (con la stessa commissione che prima nega e poi conferma l'accusa di evasione), ancora più vistoso è un caso di presunta frode dell'Iva che chiama in causa un gruppo imprenditoriale di Prato, presieduto da Paolo Sarti, l'ex leader degli industriali della città toscana. Nonostante non sia a capo di un impero finanziario, l'imprenditore (che opera nel tessile, nell'alimentare - la sua Food Italia è tra i leader nelle vendite di pizze surgelate - e nell'immobiliare) è sotto inchiesta per una cifra-monstre, ben 22 milioni di euro: Iva detratta indebitamente o richiesta a rimborso senza averne titolo. L'indagine, nata all'inizio del 2007, ha coinvolto decine di persone: sei sono finiti in carcere. Gli inquirenti ipotizzano un giro di compravendite fasulle: prodotti come filati, macchinari, persino imbarcazioni, figurano venduti da una società all'altra, ma in realtà tornano al proprietario iniziale addirittura prima del calar del sole. Il presunto cervello della frode fiscale, il commercialista riminese Giampaolo Corabi, che si presentava come consulente dell'autorevole studio Sutti di Milano, ha patteggiato lo scorso ottobre una pena di tre anni e due mesi.

Tra vip della moda, imprenditori e campioni dello sport, l'Agenzia delle entrate della gestione Visco sta sparando le ultime, pesantissime cartucce. Ma le elezioni sono vicine e pochi ispettori scommettono che la lotta all'evasione fiscale continuerà, soprattutto in caso di vittoria del centrodestra, con la stessa lena degli ultimi mesi. I vertici dell'Agenzia sono pronti a fare le valigie, nonostante rivendichino di aver fatto il possibile per dimostrare che la legge è uguale per tutti. Più dei versamenti imposti a tante celebrità di sport e cinema (da Valentino Rossi a Ornella Muti, da Mario Cipollini a Marco Van Basten), tra i successi della squadra guidata da Massimo Romano spiccano i casi della Bell e le verifiche fiscali su Telecom Italia (solo l'accertamento per la fusione con Blu vale oltre un miliardo). E mentre l'Agenzia si prepara a chiudere le indagini sull lista dei presunti evasori di Vaduz, continuano anche altri accertamenti a otto zeri. Un nome per tutti: Stefano Ricucci. La sua Magiste international ha già restituito oltre 25 milioni di euro, ma il confronto tra Agenzia e la società Magiste Real Estate, attualmente in concordato fallimentare, non è terminato. Gli ispettori contestano plusvalenze da capogiro e tra un mesetto dovrebbero formulare l'accusa finale: si parla di circa 50 milioni tra imposte evase e sanzioni.

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