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domenica 6 gennaio 2008

Massimiliano Gioni: L’arte contemporanea sono io.

(Elena Molinari - Panorama) Persino la Romania incuriosisce più dell’Italia i collezionisti stranieri. E mentre a New York, Londra e anche Madrid gli artisti si sono buttati nel nuovo millennio postindustriale, ecologico e iconoclasta, un curatore italiano per trovare un movimento artistico di rottura deve tornare all’Arte povera: di 40 anni fa. Oppure imparare l’inglese e andare a organizzare mostre altrove, dove ci sono spazi e pubblico per opere non convenzionali. Peccato che i curatori e gli artisti italiani non lo facciano abbastanza.

Non vuole fare polemica Massimiliano Gioni, 34 anni, direttore delle mostre speciali del New Museum of contemporary art di New York e, dal 2003, direttore artistico della Fondazione Trussardi. Ma parlando a ruota libera nella nuova sede del New Museum, un palazzo fatto di sette scatole sovrapposte e incastrato in mezzo a due minute palazzine in uno dei quartieri più bohémien di New York, le sue opinioni sull’arte contemporanea nostrana escono senza filtri.
Il palazzo del New Museum nella Bowery, firmato dallo studio Sejima e Nishizawa-Sanaa, è composito, come la mostra che Gioni e i due altri curatori del museo, Richard Flood e Laura Hoptman, hanno ideato per inaugurare la nuova sede e per sintetizzare alcuni elementi chiave dell’estetica del XXI secolo. Un secolo che si è aperto con la caduta delle Torri gemelle, con i buddha afghani ridotti in polvere e con la statua di Saddam Hussein trascinata al suolo. Con scene di distruzione, insomma. “Non a caso la mostra, Unmonumental, mette in evidenza un ritorno alla tecnica dell’assemblaggio e del collage, a circa 100 anni dalla sua nascita, e l’uso di oggetti trovati, di forme frammentarie, fragili, improvvisate e instabili” spiega Gioni. “E celebra l’apertura di questo monumentale edificio ricordando che i monumenti sono effimeri e che le idee che li ispirano vanno sempre messe in discussione”.
Non cercate nomi italiani fra gli artisti in mostra. “Non ce ne sono” taglia corto Gioni. A voler proprio vedere, si può trovare qualcosa di italiano “nella tendenza al riutilizzo dei materiali: è un’eredità appunto dell’Arte povera”. Poi però Gioni deve ammettere che il linguaggio di forme e colori che si articola in questi giorni nelle sale del museo è più assordante ed eccessivo di qualsiasi lavoro si possa trovare a Roma, Milano o Spoleto. “Questa è arte nata in metropoli popolate di rifiuti, con cui l’artista impara prima a convivere e poi decide di inserire nel suo lavoro”.
Una sensibilità che da noi manca e non perché le nostre città siano più pulite. “L’arte contemporanea in Italia è più formalistica. Non sa ancora essere così aggressiva. È dominata da una tradizione di ricerca dell’equilibrio e della bellezza. Può essere un pregio, ma anche un limite. Anche quando l’arte italiana arriva a eccessi, come quella di Maurizio Cattelan, cerca sempre una misura”.
Gioni, che tramite la Fondazione Trussardi ha portato Cattelan a Milano e poi con lui e la curatrice Ali Subotnick ha fondato una galleria (la Wrong Gallery a New York e poi alla Tate Modern di Londra), quindi progettato una Biennale (Berlino) e inventato una rivista d’arte (Charley), non accuserebbe mai l’artista padovano di non essere audace. Ricorda bene le polemiche che accompagnarono l’impiccagione di tre bambini-manichini firmati da Cattelan in piazza XXIV Maggio a Milano.
Ma un Cattelan, un Francesco Vezzoli o una Vanessa Beecroft non bastano a liberare l’arte contemporanea italiana da una letargia che secondo Gioni la rende sempre meno interessante agli occhi del mondo.
“Non siamo più esotici solo perché siamo italiani. Ora i curatori americani vanno in Europa dell’Est o in Cina. E noi intanto non abbiamo saputo costruire un sistema espositivo come quello della Gran Bretagna, della Germania e della Spagna”. Le istituzioni italiane, infatti, “non percepiscono l’arte contemporanea come strumento di promozione del Paese”.
Gioni allora ha deciso di fare come i suoi modelli, Germano Celant e Francesco Bonami, ed è andato a cercare altrove quello che manca in Italia. “La mia domanda a questo punto è: riusciranno gli artisti italiani a trasformare le debolezze della nostra società in punti di forza? A fare come Giorgio Morandi, che ha raccontato con ossessiva ripetizione un piccolo mondo, riuscendo così a dargli un valore universale?”.
Gioni non ha risposte, torna a parlare della sua Unmonumental, che gli dà più certezze. E che è impressionante, con le sue enormi composizioni multiformi, sgraziate e variopinte che dominano lo spazio vuoto e silenzioso del museo. Vuoto per poco: presto compariranno sui muri 13 opere di collage bidimensionali commissionate ad altrettanti artisti internazionali. E silenzioso fino a febbraio, quando arriveranno i rumori e le sinfonie di altri 13 artisti. “La mostra stessa è un lavoro di collage” spiega Gioni.
A marzo sarà sostituita da tre esposizioni, una per piano, una per ogni curatore del museo: Gioni, Richard Flood e Laura Hoptman. Lui allestirà quella del giovane artista americano Paul Chan, che presenterà luci e ombre proiettate sul pavimento, che il pubblico potrà attraversare e calpestare.
Pensare a Chan lo fa tornare all’Italia. “L’unico posto in Italia dove qualcosa del genere sarebbe possibile è la Fondazione Trussardi. Lì facciamo cose incredibili. Il 29 gennaio useremo per la prima volta Palazzo Litta a Milano. Si esibiranno Peter Fischli e David Weiss, un duo artistico svizzero, tra i piu importanti innovatori dell’arte contemporanea. Penso che il New Museum mi abbia voluto per questo tipo di lavoro che ho fatto e perché l’aiutassi a reinventare la sua identità”.
I paragoni fra Milano e New York, però, si fermano qui. “La differenza più grossa la fa il pubblico. L’audience qui è incredibile. Per l’inaugurazione della nuova sede il New Museum è rimasto aperto 33 ore di fila. Ed era sempre pieno, anche alle 4 di notte. Sono passate 30 mila persone. A Milano invece ogni progetto è una sfida. Non si sa mai come il pubblico o la critica reagiranno. E ogni mostra non convenzionale ha un effetto dirompente, quindi anche una funzione educativa”.
Appena arrivato a lavorare a New York Gioni ha avuto l’impressione di essere entrato in una comunità artistica dove nessuna opera è isolata, ma si inserisce in un contesto fatto di film, libri, altri quadri e altre sculture e abitato non solo di critici e collezionisti, come pure di famiglie con i bambini al seguito. “Una tradizione tutta newyorkese, che da noi non esiste”. E che è stata alimentata, a detta di Gioni, anche dalla pubblicità, con la quale gli artisti più giovani hanno un rapporto quasi simbiotico.
“Gli artisti degli anni Novanta sono cresciuti masticando riviste e immagini di moda, della televisione, della pubblicità. Più o meno consciamente ne hanno adottato le strategie, trovandosi a usare un linguaggio più immediato. I mezzi di comunicazione di massa ricambiano il favore offrendo loro più spazi e appropriandosi delle loro immagini. Quindi oggi si può facilmente convivere con le opere di artisti come Matthew Barney, Damien Hirst o Jeff Koons, anche senza averle mai viste in una galleria”.
E soprattutto senza averne mai comprata una, visto che la media dei pezzi d’arte contemporanea battuti alle aste è oggi vicina al milione di dollari.
“L’impennata dei prezzi nell’arte è incredibile e può essere un problema” continua Gioni. “Il potere del denaro è così forte che si tende a interpretare il valore dell’opera in base al suo costo. Ma in realtà il valore commerciale delle opere è sempre meno un segno del successo dell’artista”. Se però i prezzi crollassero, ammette, il sistema delle gallerie potrebbe arrestarsi di colpo. “Ogni anno galleristi e curatori si dicono che più in alto di così non si può andare, che è l’inizio della fine, che non si venderà niente. Poi arriva un’ondata di nuovi compratori, come i russi o i cinesi, si segna un nuovo record di vendite e tutti tirano un sospiro di sollievo”.

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