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sabato 6 ottobre 2007

Un Papa neorinascimentale...

Camauro, latino, ellenismo, finezza teologica, realismo politico (e ora la campagna culturale?)

(Alessandro Giuli - Il Foglio) l recupero del camauro, del saturno a tese larghe, la mozzetta orlata di ermellino, la gestualità ieratica e gutturale, un poco distante, solo apparentemente timida.
Questo è il corredo esornativo, ed è già carico di valore simbolico. Al centro grava il contenuto, un eccesso di senso semplificabile attraverso due elementi essenziali: il discorso di Ratisbonamotu proprio che ripristina la messa in lingua latina secondo il rito di san Pio V.
Visto che non può essere soltanto una tattica bisogna parlare di vocazione. Quella di Benedetto XVI si potrebbe definire neorinascimentale, nel senso che coniuga il ritorno a una certa classicità con la proiezione cadenzata nell’orizzonte mondano.
Il teologo Joseph Ratzinger sembra camminare in parallelo con la speculazione teutonica secondo la quale – come insegnava Martin Heidegger – il Logos un rapporto sensuale e di massa ad alta intensità emotiva e, per quanto possibile nella società piramidale ecclesiastica, a bassa capacità ordinatrice.
Esempio palpabile: la scommessa africana, il tentativo di contrapporre la rinnovata evangelizzazione del continente nero alla crisi delle vocazioni occidentali.
Con un successo mutilato e visibile nelle oscillazioni animistiche dei vari Milingo prodotti. Un parziale insuccesso ha scandito anche la velleità di permeare la corazza degli ortodossi nei Balcani, nella Turchia e nella Russia, o la volontà d’inserirsi nelle pieghe religiose di un sud-est asiatico troppo rassegnato alla propria impersonalità secolare. Semplificando ancora, quello di Wojtyla era un pontificato “lunare”, femminile come la fortuna nella sua passività (che è tremenda forza d’inerzia, nell’accezione di Machiavelli), come l’anima della massa e come il cerchio magico delle suore polacche del quale il Papa si circondava. Un pontificato cristiano legato sottilmente alle origini, di contaminazione veterotestamentaria, ipnotico come un salmo o un Notturno di Chopin.
E’ vero però che l’ultimo tratto del regno di Giovanni Paolo adombrava già uno slittamento dell’asse pontificio, un movimento à rebours che era anche una cristallizzazione, ma più che altro un vaticinio del vento in arrivo. Il vento soffiava dalla Baviera e ha trovato le finestre del colle Vaticano spalancate dai vescovi di Camillo Ruini.
Prima di diventare Benedetto XVI, Ratzinger si era fatto annunciare dalla propria narrazione intellettuale quattrocentesca, erudita e calma, ma dotata di una risolutezza molto congeniale ai tempi e ai temi di questi anni. Venuto meno il fascino corporale di Wojtyla, è sopraggiunto il più rarefatto pathos della distanza germanico.
Un misto di teologia conventuale e consapevolezza nordica temperata dall’aria del Mediterraneo (di qui la sua sensibilità per la custodia dell’ambiente naturale).
Ratzinger si offre così ai fedeli e agli antagonisti: come un colto facitore di cose sacre e politiche. Il suo intervento all’Università di Ratisbona (settembre 2006) è stato un capolavoro di realismo politico e raffinatezza teologica. La citazione dal noto discorso del Paleologo su Maometto ha arrestato per lungo tempo le ambizioni europee della Turchia, il paese che ha reagito nel modo più disordinato all’attacco ratzingeriano contro l’irrazionalismo islamico.
Senza contare che gli ortodossi bizantini hanno contraccambiato con uno spettacolare riavvicinamento al Vaticano: durante la successiva visita del Papa alla cattedrale di santa Sofia (chiesa e moschea in passato), il fermo-immagine del momento restituiva un Benedetto XVI certo di sé e immobile sopra un drappo vaticano largo
almeno il doppio di quello aperto dal subalterno metropolita locale. Può sembrare una banalità ma i centimetri contano anche agli occhi dell’assoluto.
L’operazione è paragonabile alla lontana con le glorie terrene di Giulio II (XVXVI secolo), il Papa che vinse militarmente la Repubblica veneziana e posò il primo blocco di marmo per la basilica di San Pietro.

Sempre in quel discorso di Ratisbona, poi, Ratzinger ha esposto il cuore del proprio magistero: l’alleanza solidale tra il Logos ellenico – quello degli “idolatri”, come li chiama lui – e la fede galilea. E’ una formidabile combinazione che sottrae il dogma religioso alla privatezza individuale e lo pianta nel discorso pubblico della ragione.

In questo illuminismo metafisico coabitano il rigore del neoplatonismo cristianizzato e la decisione di giocare senza più veli: la riserva aurea della chiesa neorinascimentale che si propone sulla piazza dei laici trova il proprio deposito nella potenza solare del Logos tratto dalla speculazione della tarda antichità (per lo meno).
Fu questa l’arma principale con la quale Costantino (IV secolo), assimilando la figura del Cristo a quella di Helios, rese credibile la propria corte imperiale agli occhi di un paganesimo popolare che altrimenti non lo avrebbe capito né accolto.
Ed è questa la novità di Benedetto XVI, principe di un pontificato dalle pretese solari, idealmente contemporaneo a quei papi che nel tardorinascimento disseppellirono gli obelischi egizi che avevano fatto da contrafforte alla Roma politeista, per ricollocarli (esorcizzati e sormontati dalla croce) al centro dei propri fasti toponomastici.
Un esempio fra tanti, il così detto obelisco vaticano di piazza San Pietro: per gli egizi che l’avevano fabbricato a Heliopoli era un raggio di sole pietrificato; per il conquistatore Augusto era la prova d’un destino imperiale; per Sisto V, che “havendo rimosso questo obelisco dal suo primo luogo e tolto, con immensa fatica, ad
Augusto e Tiberio Cesari, lo consacrò alla santissima croce l’anno 1586” (così negli “Avvisi di Roma” del giorno dopo), fu lo sfoggio trionfale d’un desiderio di rottura rispetto alla “idolatria” e di apparente continuità con la narrazione solare.

La mondanità della scelta di Ravasi

Con tutta la cautela del mondo, l’azzardo è possibile. L’ellenizzante Benedetto XVI che segna il ritorno in Europa della religione cattolica come figura della battaglia ideale e politica (c’entra molto l’aggressività islamica). Il teologo Ratzinger dai princìpi non negoziabili che si sente pronto a delimitare nuovi confini ecclesiali (da quanto tempo non si parlava più di scomunica?). Il Papa che sembra uscito da una tela di scuola settecentesca quando lascia che il proprio gatto gli passeggi sul pianoforte. Lo stratega della presenza pubblica che affida al mondano monsignor Gianfranco Ravasi il compito di amministrare la cultura e l’archeologia vaticane (come dire il fusto e le radici).
L’uomo che accarezza la fede come il vestibolo d’un esame affidato alla potenza dell’intelletto. Sono le numerose sfumature di un essere unico che cerca di opporsi al secolarismo e al sole divorante (ma consanguineo) del deserto musulmano e lo fa, per vocazione e per necessità, aggrappato al senso di una verticalità antichissima e abbagliante.
Per certi versi il neorinascimentale Ratzinger è anche il segnacolo di una debolezza messa a nudo – il cristianesimo in armi non basta a se stesso – ma non per questo meno squillante e temibile.
e il






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