(Lorenzo Bernini - Liberazione) In questo articolo racconterò brevemente la mia esperienza in un gruppo di autocoscienza maschile di Milano, senza pretendere di riassumere nella mia voce quelle degli altri uomini che ne fanno parte. Il gruppo non si è convocato sul tema della violenza, ma più in generale su quello dell'identità maschile. Il suo progetto è antecedente alla manifestazione lesbica e femminista contro la violenza sulle donne del novembre 2007 e risale almeno al 2003, anno di nascita del movimento italiano degli uomini transessuali e transgender. Attualmente è frequentato da due uomini trans, un uomo etero, e due uomini gay (uno dei quali sono io), accomunati dalla volontà di mettere in discussione la propria mascolinità.
Nel piccolo campione di uomini gay che hanno frequentato, saltuariamente o stabilmente, il gruppo di autocoscienza, la mia posizione di genere - che già sapevo non essere molto popolare tra i gay del movimento antagonista italiano, prosecutori del pensiero di Mario Mieli e della sua critica radicale della mascolinità - è risultata minoritaria. Io, infatti, pur essendo gay, nel mio percorso di vita non ho decostruito ma anzi ho costruito la mia identità di "uomo". Nel 2003, ho sentito che in qualche modo le parole del nascente movimento degli uomini trans mi riguardavano, perché per me, come per loro, la mascolinità non è stata affatto un "dato" immediato di natura, ma il risultato di un "processo" che ha richiesto un'autonoma ridefinizione tanto della mia mascolinità quanto della mia omosessualità.
L'identità maschile tradizionale è caratterizzata non solo e non tanto dagli attributi del corpo maschile, ma anche e soprattutto dalla negazione simbolica di tutto ciò che viene ricondotto al femminile: per il desiderio e la sottomissione del femminile e per il disprezzo dell'omosessualità e del transgenderismo. Ma l'esperienza del nostro gruppo di autocoscienza maschile dimostra che è possibile sentirsi uomini pur essendo nati con corpi femminili, pur non provando desiderio verso le donne, pur combattendo il maschilismo, l'omofobia e la transfobia. A chi, a questo punto, volesse sapere da me "che cosa" resta della soggettività maschile quando si mettano in discussione maschilismo, omofobia e transfobia, risponderei, però, che la domanda è mal posta, perché non ha alcun senso chiedere a un soggetto "che cosa è la tua soggettività?". Come insegna Hannah Arendt, a un soggetto si può chiedere solo "chi sei?", disponendosi ad ascoltare la sua storia confusa: accettando che egli non è sovrano sulle sue identificazioni, perché esse dipendono dal riconoscimento degli altri e da un mondo di significati culturali di cui egli non è padrone. Ma da cui neppure è completamente padroneggiato.
Uno di questi significati è, appunto, il genere. Nessuno, infatti, sceglie di venire al mondo in una realtà in cui la sessualità è regolata da una logica binaria e gerarchizzante che distingue tra uomini e donne. E tuttavia ogni soggetto è libero di agire almeno parzialmente sul binarismo sessuale a cui è assoggettato, "dislocando" (per usare un termine caro a Judith Butler) il genere di cui si sente portatore. È possibile, ad esempio, che alcuni uomini poco tradizionali riflettano assieme su quel che resta in loro del maschilismo, dell'omofobia e della transfobia tradizionali, cercando di non lasciarsene determinare e di rendere così praticabili, prima di tutto a loro stessi, nuove declinazioni della mascolinità. È questo appunto, almeno io credo, il significato politico del lavoro che stiamo facendo nel gruppo di autocoscienza maschile di Milano.
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