Dopo l’intervento delle truppe del Patto di Varsavia, molti guardarono verso il Partito comunista italiano nella speranza di cogliere qualche utile segnale. Ma il Pci sembrava essere altrettanto esitante. Luigi Longo, segretario del partito, espresse dissenso e riprovazione. Ma dopo un difficile dibattito interno, il partito finì per adottare una linea equidistante fra il riformismo di Alexander Dubcek e l’ortodossia sovietica.
Particolarmente equidistante fu Pietro Ingrao. In una dichiarazione alla Camera disse che il corso inaugurato da Dubcek e dai riformatori “non era esente da pericoli”. Anziché condannare esplicitamente l’intervento sovietico, preferì osservare che “non è la via giusta per combattere quei pericoli”. Insomma i riformatori sarebbero stati troppo imprudenti e l’Urss troppo impetuosa. Chi legge le parole di Ingrao e continua a ritenere che l’autorevolezza del Pci sia un assioma della democrazia italiana, non è incoraggiato a sbilanciarsi.
Non fu questo, tuttavia, il principale motivo della reticenza degli intellettuali di sinistra. Molti di essi sapevano ormai che l’Unione Sovietica era uno stato conservatore, governato da una oligarchia, depositario di “brevetti” falliti. Nikita Krusciov aveva distrutto il mito di Stalin ed era stato a sua volta eliminato dall’ala immobilista del partito. Vi erano ancora cose in cui credere? Certo, l’Urss era una grande potenza, utile per controllare “l’imperialismo” capitalista degli Stati Uniti e garantire gli equilibri della Guerra fredda. Ma questi erano argomenti troppo realisticamente freddi per coloro che si erano nominati profeti del progresso e si erano professionalmente dedicati all’attesa di un futuro migliore.
Se l’Urss appariva intorpidita e invecchiata, occorreva trovare qualcosa che giustificasse una nuova stagione di speranze e di attese. Questo “qualcosa”, beninteso, doveva essere di sinistra.
Come scrive Il Manifesto in quegli anni, occorre uscire dallo stalinismo, ma “da sinistra”. Occorre insomma un altro paradigma rivoluzionario, un altro “balzo in avanti”. Fra i due Sessantotto – quello delle barricate di Parigi e quello di Praga – gli intellettuali impegnati non hanno dubbi. Parigi ha indicato, anche se in modi confusi e pasticciati, nuovi modelli rivoluzionari: il Vietnam, Cuba, soprattutto la Cina comunista. Dai riformisti di Praga, invece, si sprigiona uno sgradevole odore di socialdemocrazia, l’ideologia più detestata dal massimalismo rivoluzionario e pseudorivoluzionario della sinistra italiana.
Questo spiega, incidentalmente, perché uno dei primi ad accorgersi dell’importanza di Praga, negli anni seguenti, sia stato Bettino Craxi. Il leader socialista capì che il riformismo, grazie alla Primavera cecoslovacca e alla repressione sovietica, aveva ormai ciò che in passato era stato principalmente un appannaggio dei comunisti: i suoi coraggiosi combattenti, i suoi martiri, i suoi esuli.
Quando uno di questi, Jiri Pelikan, giunse in Italia e bussò inutilmente alla porta del Pci, Craxi non esitò ad accoglierlo nel suo partito e includerlo nelle liste socialiste per le elezioni europee del 1979. Ma il fatto che il riformismo praghese fosse caduto nelle mani dei socialisti lo rendeva, agli occhi di certi intellettuali, ancora più sospettabile.
La Biennale del dissenso dette qualche conforto e qualche speranza agli oppositori dei paesi satelliti, ma in Italia sembrò a molti soltanto una mossa opportunistica del craxismo.
È giusto ricordare, tuttavia, che anche l’intellighenzia liberaldemocratica fu avara di consensi e di incoraggiamenti. Vi furono gli articoli di Enzo Bettiza sul Corriere della sera (riprodotti in un libro pubblicato recentemente da Mondadori) e altre voci liberali si levarono per segnalare l’interesse di ciò che accadeva a Praga nella primavera del 1968. Ma ciò che in quel momento più preoccupava le classi dirigenti dei paesi democratici era la creazione di un equilibrio europeo in cui i rigori della Guerra fredda venissero temperati dall’esistenza di regole condivise.
Cominciava in quel periodo la lunga marcia verso la Conferenza per la cooperazione e la sicurezza in Europa. Furono necessari tre anni per preparare i primi incontri finlandesi del 1972 e l’inizio formale dei lavori nel 1973. Ne occorreranno altri due per l’Atto unico che verrà firmato a Helsinki nell’agosto del 1975. Per quanti ritenevano che la Conferenza fosse necessaria alla pace, la Primavera di Praga fu soltanto un imbarazzante incidente di percorso.
Non fu un incidente di percorso, invece, per molti intellettuali sovietici e dei paesi satelliti. A Varsavia, a Budapest e nella stessa Praga l’esperienza del 1968 divenne il punto di partenza per nuovi progetti e per nuove esperienze. A Mosca e a Leningrado molti giovani aprirono gli occhi e cominciarono a interrogarsi sulla natura del regime in cui vivevano. Non occuparono le aule universitarie, non manifestarono nelle piazze, non imbrattarono di graffiti le mura del Cremlino, non cercarono d’infilare fiori nelle canne dei fucili della polizia. Non fecero in altre parole ciò che in Occidente era oggetto di compiaciute disquisizioni intellettuali e in Urss sarebbe stato represso con alcuni anni di prigione.
Ma il Sessantotto delle loro coscienze si fuse con il meglio della esperienza kruscioviana e concorse a creare la generazione dei “shestidesiatniki“, degli uomini degli anni Sessanta, di cui parla Giuseppe Boffa in un libro del 1995 pubblicato da Laterza (Dall’Urss alla Russia. Storia di una crisi non finita).
La loro sorte non fu migliore di quella degli intellettuali di Praga. Erano stati sconfitti all’epoca di Krusciov e sarebbero stati sconfitti ancora una volta, dopo avere sperato nelle riforme gorbacioviane, dal fallimento della perestrojka. Ma anche gli esperimenti falliti, quando sono vissuti con passione, possono essere utili alla trasformazione di un paese. Dalla Primavera di Praga, invece, gli intellettuali della sinistra italiana non seppero trarre alcun insegnamento.
E forse non hanno ancora smesso di pagare il prezzo di quella distrazione.
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