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martedì 13 maggio 2008

Quando il gay stereotipizza se stesso.

Lettera scritta da una lesbica di Bari al filosofo Galimberti e pubblicata nella rubrica che tiene su D – La Repubblica delle Donne.

Per me ventenne figlia del Sud Italia che si sta formando e cercando di mettere due o tre punti fermi nella propria vita, la questione della visibilità è di primaria importanza ma non riesco a fare del tutto chiarezza. Frequento un gruppo di donne che più o meno amano le donne ma che faticano anche solo a pronunciare la parola “lesbica” perché la troverebbero ingabbiante, limitativa. Mi ritrovo a volte nei loro discorsi sul problema della profonda vergogna a dire al proprio ginecologo che non hanno rapporti con uomini ma che comunque hanno una vita sessuale attiva con una donna.

La soluzione a detta loro sarebbe una maggiore tranquillità nel dire qual è il proprio orientamento sessuale, in poche parole la visibilità. Ed è per questo che si affiggono manifesti con su scritto: “In un Paese civile, perché vergognarsi di dichiararsi lesbiche?”, si spendono parole su come si possano cambiare le cose in questa Italia ancora così indietro in materia omosessualità, dai Dico alla convivenza civile con chi è considerato diverso. Allora perché la maggior parte delle donne lesbiche che si riempie la bocca di questi discorsi, che si dice “invisibile per la società”, è invisibile prima di tutto di fronte a se stessa e poi anche nell’ambito di gruppi ristretti?

Molte donne si fingono eterosessuali al lavoro, in famiglia, con gli amici, molte non camminano mano nella mano con la propria compagna. Forse perché anche qui a Bari succede come sabato scorso che un ragazzo sia pestato perché “frocio”? Credo che la visibilità sia una questione non solo personale, ma anche politica e sociale. La mancanza di accettazione dell’omosessualità è dettata dall’ignoranza prima che dalle convinzioni etiche, religiose e valoriali.

L’amore per il proprio sesso è una componente sociale fondamentale dall’alba dei tempi! Ma in Italia si dovrà pur cominciare ad “abituarsi” a vedere due donne camminare abbracciate o due uomini tenersi la mano! Da qui l’importanza della visibilità. Non vado certo in giro con la maglietta con su scritto “Lesbica Praticante” ma a vent’anni non ho problemi a dirlo, se mi chiedono se ho un ragazzo rispondo di avere una ragazza meravigliosa, che mi accompagna e mi bacia al Politecnico la mattina, non faccio mistero del mio orientamento senza però sbandierarlo. E non nascondo un piccolo fastidio nel rendermi conto che non è una cosa facile! Perché i condizionamenti mi porterebbero in un’altra direzione ma sento che essere visibile sia un’affermazione della coscienza di me stessa e di una coscienza politica. Da dove nasce tutta questa paura soprattutto delle donne?

Non credo sia solo una questione di terrore che simpatizzanti di Forza Nuova o bulletti omofobi ti circondino e ti facciano il pelo. Ammiro le donne che sono coerenti nell’affermare la necessità di cambiare le cose e nello stesso tempo nel praticarlo nella vita di tutti i giorni, ma fino a ora ne ho conosciute poche.

diesdre@******

Scrive la psichiatra americana M. Kirkpatrick in Lesbians: “Come principio organizzatore della femminilità, la ricerca dell’intimità è un tema fondamentale nella vita della maggior parte delle donne, e tale ricerca sembra essere un imperativo ancora più grande nella vita delle lesbiche”. Penso che il problema degli omosessuali non sia tanto la visibilità, quanto, come scrivono Paolo Rigliano e Margherita Graglia in Gay e lesbiche in psicoterapia (Cortina), quello di creare un linguaggio autonomo, autenticamente proprio, che porti gli omosessuali fuori da quegli scampoli terminologici, da quei luoghi comuni mediatici, da quelle rappresentazioni stereotipate che li confinano nei recinti delimitati da quelle espressioni, da tutti condivise e utilizzate, che suonano: gay pride, coming out, outing. Espressioni simili servono solo a offrire omosessuali e lesbiche alla curiosità morbosa e a costringerli a scambiare una pubblica manifestazione o una pubblica confessione come atto di sincerità, mentre di fatto si tratta solo di una sottrazione di quanto in ciascuno di noi c’è di più intimo, di più segreto, di più nostro: l’intimità. Cedere la propria intimità è spudoratezza che, offerta sul piatto nobile della sincerità, è il prezzo che gli omosessuali devono pagare per una semiaccettazione sociale, che poi serve solo a inchiodarli al loro ruolo sessuale. La libertà che gli omosessuali rivendicano non è quella dell’accettazione delle loro pratiche sessuali, bensì quella di non essere oggetto di quella violenza, a mio parere la più micidiale, fatta all’intimità della loro persona, che rende difficile il percorso che porta al riconoscimento di ciò che si è, e del senso esistenziale che, a partire da ciò che si è, si può liberamente costruire, senza essere obbligati a fare sogni non propri o adeguarsi a forme di vita che si sentono estranee. E dico questo soprattutto oggi che si va inaugurando, in ambito cattolico, una tendenza che promuove una psicoterapia per omosessuali, a partire da un presunto sapere psicoanalitico e psichiatrico di fine Ottocento, che rispondeva non tanto al rispetto della persona, quanto al compito di estirpare tendenze ritenute “morbose”, semplicemente perché diverse dall’ordine costituito. Alla base della ripresa di simili pratiche terapeutiche io vedo solo una grande difficoltà ad accettare l’altro nella sua alterità, che pertanto viene confinato, se non proprio nell’ambito della riprovazione morale, senz’altro in quello della “malattia”, da cui secondo questi terapeuti, ma senza alcun fondamento scientifico, si può anche “guarire”.

Umberto Galimberti

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