Viva il Duce anche dall’urna.
In un grazioso volume con antologia annessa sono intruppati i “nostalgici”. Cioè quelli che a Predappio fan la fila per scrivere un pensiero d’amore a Benito. Beati loro. Io non mi emoziono neppure di fronte a Shakespeare.
(Davide Brullo - Il Domenicale) Dio e democrazia sono inconciliabili. Semplicemente, appartengono a due mondi diversi. Non puoi pensare che ogni portiere d’albergo possegga nel proprio taschino le chiavi del Paradiso, benché costui possa avere un bel viso da San Pietro. La verità non è democratica, bensì assoluta, forse assurda al nostro sguardo mortale, ma poco importa. La verità non si conquista in Parlamento, non la decide la maggioranza, anzi, in ultima analisi si potrebbe perfino dire che la maggioranza ignori la verità, di cui perfino i santi non posseggono che qualche nebuloso indizio. La democrazia è un gioco con cui gli uomini si tengono occupati. È bello pensarla in spirito inglese, con quella truppa di elegantoni primonovecenteschi dal doppiopetto appena ritagliato dal sarto, baffi, orologio da tasca e tutto il resto. Uno sulla poltrona accavalla le gambe, ondeggia il calice colmo di brandy, dalla pasta spessa e paglierina, e chiede all’amico, in piedi, che incrocia e districa le braccia di fronte a un camino vasto, come stanno i nostri in India?, l’altro gli risponde che hanno dei problemi con i coltivatori di tè, il terzo interviene dicendo che a Suez si è accesa una rivolta e via così.
«È meglio che io sappia chi è il mio padrone, piuttosto che mi senta disperatamente, ma ugualmente schiavo in nome di un’astrazione che si chiama stato, democrazia o che so io. Il fatto è che l’uomo è nato con un duro destino dal quale può trovar scampo soltanto l’asceta o il poeta». Non l’ha scritto uno statista o un saggio della montagna con il cuore da spaccatibie, ma Giuseppe Tucci, studioso ed esploratore di lusso, uno dei massimi esperti di religioni orientali di ogni tempo. L’uomo ha bisogno di Dio, poche storie. In alternativa, perché di concetti e di fede il miserello muore, si accontenta di un Cesare. L’uomo ha bisogno di un padre, di un padrone, di un potente da amare alla follia oppure da odiare con la stessa frenetica forza. Dopo tutto, Stato è un concetto ancora più evanescente di Dio. L’uomo, per rispettare il suo Creatore, non dovrebbe agire, dovrebbe disinteressarsi del mondo, della storia e del tempo. Se proprio non può farne a meno, per orgoglio, per vanità o perché non sa starsene con le mani in mano a contemplare le cose, che l’azione abbia un volto, un viso, un idolo, senza cavilli e burocrazie di mezzo.
Vengo al bersaglio, Benito Mussolini. Tutti ricordate quel volto lì. Viso quadrato, maschio, mascella che sembra la prua di una nave, occhi accesi, spiritati. Uomo passionale e impulsivo, poco dotato nel maneggiare pensieri complessi, direbbe un Lombroso. Chissà. Ogni Cesare dev’essere un simbolo vivente di potenza. Eppure, Marco Aurelio negli accampamenti di Carnunto o sulle rive del Gran, ragionava sulla piccolezza dell’uomo, sulla vanità di ogni suo atto; Tiberio s’incupiva a Capri inorridito dall’azione imperiale e Adriano si era ritagliato un’isoletta, nella sua villa peraltro sobria, dove riflettere sulla vita, come fuori dal mondo. I tempi cambiano. Allora gli imperatori erano assediati da un ronzio di guitti, di matti e di filosofi (do you remember Seneca?), Benny, che si era fatto da sé, veniva dalla culla del giornalismo, dalla parola che ferisce e uccide sennò è sprecata. Benito è morto, evviva Benito.
Perlomeno, direbbe qualcuno, c’era qualcosa di cui parlare; o qualcosa per cui morire, direbbero altri. Il Cesare fa un favore a ogni opposizione della terra. È nello scontro viso a viso, difatti, che si acuiscono le differenze, e perciò la personalità. Se ti va bene il Cesare lo ammazzi e ti metti tu al posto suo, se ti va male, esilio, morte e torture. Infine, diventi un martire. C’è gente che muore molto peggio, state certi.
C’è gente che fa la coda, tutti in fila al mausoleo del Mussolini. Vanno lì, di fronte al viso plastico del Dux intagliato da Wildt, bianco, truce, acceso, e chissà cosa pensano. Non mi emoziono nemmeno di fronte alle reliquie dei santi, nemmeno di fronte al sepolcro del Cristo, nemmeno di fronte alla tomba di mio padre, figuriamoci cosa m’importa del Dux morto, sepolto e smangiato dai vermi.
Eppure il pellegrinaggio ha dello straordinario. Chissà cosa pensano costoro, vecchi fascisti ma anche giovani studenti, antiche amanti ma pure ragazzine che del Benny han letto solo sui libri di scuola. Cosa pensano non lo sappiamo, cosa scrivono sì. Il libro, coordinato da Roberto Zoli e da Pierluigi Moressa, Caro Mussolini. 1957-2007: cinquant’anni di missive al Duce nella cripta di Predappio (Raffaelli Editore, Rimini 2007, pp.216, e15,00), sul punto è documento insuperabile. Per la prima metà ripercorre la storia del Benny post mortem. La salma trafugata dal camerata Domenico Leccisi e da un suo compare nella notte tra il 22 e il 23 aprile del 1946 dal cimitero milanese di Musocco. Poi il recupero da parte della polizia, gli undici anni di silenzio, in «un luogo segreto dove il corpo del Duce potesse riposare in pace». Infine, cinquant’anni fa, la salma deposta a Predappio. L’ultima metà del libro è un’antologia di pensieri attorno alla tomba. Sono abituato ad ammirare (ma fino a una certa quota) i grandi che ci hanno plasmato dal fango, i Virgilio, i Dante, gli Shakespeare, i Dostoevskij.
Gli uomini d’azione vengono e vanno, il mondo si fa e si disfa a seconda delle nostre esigenze. Eppure, chessò, nella cripta del Bardo non saprei che scrivergli. Il dialogo che tesso sulle sue opere insuperabili mi è sufficiente. Qui in pura retorica fascista ce n’è per tutti gli stili. «Marciare per non marcire! Un Duce in ogni casa un Duce in ogni cuore», scrive un affezionato il 28 aprile 1997; «Se dopo tanti anni sei ancora così onorato, vuol dire che nulla è cambiato. Vincere e vinceremo!», guaisce un profeta il 16 agosto 2005; «Tu di questo millennio sei stato il più grande, la reincarnazione di Giulio Cesare», un fanatico, il 22 ottobre 1999; «Tu ci hai mostrato la vera Italia: tu solo sei stato nella nostra storia l’incarnazione dell’Italia. La tua strada sarà la nostra strada»; 1 agosto 2001, cristico. Non c’è solo l’ardore, ma pure l’effusione, lo struggimento. La debolezza dell’uomo. Oppure, onore, dignità, fiducia? Chissà. Le parole di per sé sono nulla, dipende a quale piastra si attanagliano, a quale volto. Pierluigi Moressa, nel lato A del volume, offre per chi ha voglia uno studio compiuto di questi che non sono soltanto “nostalgici”.
Ma non ci eravamo già visti? Già. Roberto Zoli ha curato un’antologia di «scritti nella cripta» quattro anni fa, per l’Editrice La Voce. La raccolta stampata da Raffaelli, con qualche aggiornamento, è pressoché la medesima. Cambia la prima parte del libro. Zoli e Moressa, entrambi presenti con più lievi scritture nel volume originario, han messo legna nel camino, e ne è venuta fuori una gran bella impresa. Fuori dai giochi son rimasti i giocatori di un lustro fa, Nicholas Farrell, Roberto Balzani e Giorgio Frassineti. In quel libro primo (con in copertina una pulzella d’oggidì in nero strizzata che adempie al saluto romano sulla tomba del Dux) Franco Fregni, in sede introduttiva, si poneva una domanda lacerante, «Da che parte sarei stato?». Per Witold Gombrowicz, il polemista, il satanasso, il grande scrittore polacco, «il fascismo è una rivoluzione pervertita», e c’è di che riflettere, c’è di che non dormire sonni sereni. Io da parte mia so bene dove sarei stato. Dalla mia parte. Quella degli inadempienti e dei reietti. Dei mercenari e dei santi. Per qualcuno dei vigliacchi, per altri dei geni solitari.
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