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giovedì 1 novembre 2007

Aldo Busi su "Dagospia".

LUCI E CULI DELLA RIBALTA. DEDICATO A CHI PER I MORTI NON CI SARA’ PIÙ E ANCORA NON LO SA CREDI DI AVERE A CHE FARE CON UN UOMO, INVECE È SOLO UN MARCHIO DELL’ARCIGAY.

DEDICATO A CHI PER I MORTI NON CI SARA’ PIÙ E ANCORA NON LO SA.
Aldo Busi per Dagospia - 29.10.2007

Sono rientrato da Roma mercoledì 24 e, a parte due volte per fare le spese e la seconda perché mi ero dimenticato i marroni, non sono mai uscito da casa. Sono rimasto infilato sotto le coperte decine e decine di ore senza neppure scendere in cucina, allungando la mano per l’acqua e le sigarette sul comodino, guardando la televisione quando mi risvegliavo per potermi riaddormentare al più presto. Ho letto qualche altra fiaba dei fratelli Grimm, soprattutto “Cappuccetto Rosso” in originale, “Rotkäppchen”, perché non mi convinceva la traduzione italiana, in cui il personaggio è sempre contrassegnato dal femminile, allorché, a parte le prime cinque righe, è per l’appunto “das Rotkäppchen” fino alla fine, cioè neutro, il che andrebbe reso col maschile del copricapo e non più col genere di chi lo porta in testa. Poi mi sono gingillato, nel dormiveglia più dolce della terra e delle piume di oca nana, con una possibile trasposizione per Rai Uno.

Personaggi e interpreti: la Mamma, Flavia Prodi; Cappuccetto Rosso, Sircana; la Nonna, il cardinal Bertone (non dimentichiamo le superiori e salvifiche finalità della rete); il Cacciatore, Borghezio; il Lupo... già, il Lupo. Oggi il Lupo dovrebbe essere un mutante biondo, stare appoggiato a un lampione finto Liberty intento a farsi la manicure agli artigli e essere un’allegoria del trans brasiliano con un filo di slip ad altezza di finestrino, una chimera di quelle che mettono negli annunci “Relazioni sociali” dei giornali esche tipo, “Aaaaa nuova in città, trans de Bahia femminilissima, completissima, sesta, grosso giocattolone per mi amore”... e poi mi sono sparato alcune fiabe di Luigi Capuana, senza particolare entusiasmo, pirite bagnata, anche se la lingua è curiosa, canterina, una specie di fraseggio musicale insolito nei nostri paludatissimi marpioni dalla penna clericale, intonacata nel latinorum anche quando devono stendere la lista della serva; e non capisco tanto clamore critico attorno a Propp per il suo trattato del 1928, “Morfologia della fiaba”, sulle funzioni immutabili dei personaggi e delle figure retoriche ricorrenti – tabù, incantesimi, agnizioni, liberazioni dal maleficio ecc. -; quando hai letto alcune decine di migliaia di libri non c’è mai saggio che possa rivelarti qualcosa che non sai da sempre e che è così banale che non lo hai mai neppure formalizzato in un pensiero specifico, pensiero o, meglio, intuizione a modo suo già ben articolata senza essere mai stata espressa che soggiace insieme a tutti gli altri pensieri di carattere sistematico, ovvero filologico e filosofico e linguistico e sociologico e storiografico e “ideologico” e, in una parola, comparativo attraverso cui leggi un testo, apprezzandolo o no soprattutto in base all’anno in cui è stato reso pubblico (non me ne fregherà mai niente di leggere un romanzo scritto oggi ambientato nell’Ottocento, anche se di sicuro è scritto di gran lunga meglio e con più cura di uno di Balzac, che però ha il diritto di mandarmi in estasi anche per i suoi strafalcioni). Ricordo che quando arrivai a metà del superbamente tradotto Meridiano Mondadori dedicato a Schopenhauer pensai, “E allora?”. Stessa cosa con quella manciata di “Dialoghi” di Platone che ho compulsato vincendo lo snobismo di saperne infinitamente di più se non li leggi affatto, studiati, in verità, quasi solo per il piacere di fargli le pulci (lo stesso “Simposio” è un inno demagogico all’entre-nous elitario di sodomiti misogini, Socrate crede di dissertare d’amore, e con lui quella femme savante di Diotima, in effetti getta le basi istituzionali per il plagio di massa e l’asservimento delle menti dei più giovani e indifesi, una vera e propria fucina di Velini abbindolati, gli scaltri, con la promessa che prenderlo su per la caverna dai più anziani giova al book da presentare ai produttori e a una sicura carriera di tronista tra gli scanni del Senato); e non capirò mai il successo dei philosophes francesi, Foucault in testa e escludendo l’eccelso Ariès, che ci hanno tartassato l’amorproprio per cinquant’anni – bisognava pur studiarli, anche se di gran lunga meno interessanti e coraggiosi dei maestri della Scuola di Francoforte, solo apparentemente più all’acqua di rose, e ai quali i provinciali ancora non perdonano di scrivere chiaro nero su bianco. E’ un po’ come con i “Cantos”: per apprezzare Pound devi essere Pound e disprezzare intanto la plebea superfluità di capirci qualcosa, e allora in culo! Poi mi sono rimesso a dormire senza mai essere riuscito a dare a qualcuno la parte del Lupo. – la Finocchiaro no, non la puoi truccare oltre... e struccandola un po’? Mah!

Poi scrivo una lettera alla mia amica Emilia di Rapallo, una minuta farmacista che aveva negozio a Uscio dove io andavo alla Colonia Arnaldi e che produceva da sé tisane, creme di bellezza, sali per pediluvi, shampoo, collutori per smettere di fumare e contro l’afta buccale, digestivi, e che era sempre a buco ritto a raccogliere erbe e tuberi e bacche su per i monti dove io andavo a camminare cantando a squarciagola “La notte è piccola per noi” delle gemelle Kessler, in parte in falsetto per farle tutte e due ma, soprattutto, per immobilizzare eventuali cinghiali nella macchia; siamo stati a fare il bagno tante volte insieme a Santa Margherita e a Portofino, era così carina nella sua pettinatura alla Doris Day, e così gentile, partecipe, sperimentale, non finiva un intruglio che lo faceva testare a me, ero sempre lucido come un peltro lustrato col Sidol, aveva una vocina da fringuello alla fiera dei balocchi, e non sarà pesata di più, indossava bikini giallo sparato, portava il trentasei di scarpe, il trentasei! le dicevo sempre, “Emilia, e quando inventi una cremina per le classiche trentasei pieghette del buco del culo affinché possano ritornare una accanto all’altra e non stiano sempre così spampanate in giro?”, e si portava una mano alla bocca e rideva inebriata, dal cestino estraeva susine e pesche dalla polpa bianca dei suoi alberi e tovaglioli di lino color avorio ossidato con le cappe a uncinetto di sua nonna, siamo stati anche a ballare il Latino alla Rotonda di Rapallo un paio di volte, una volta anche con sua mamma, dallo sguardo di una felicità addolorata che mi stringeva il cuore, indossava tubini di stretch rosso ciliegia e verde smeraldo su tacchi tredici con fibbia in velluto cremisi e oro, oro autentico, non placcato oro, Emilia, voglio dire, non la mamma, addolorata non perché la sua Emilia non si sposava ma perché non poteva avere figli a causa del diabete ereditario; be’, recita la letterina: “Montichiari 26.10.2007 Cara Emilia, ben tornati dalla luna di miele russa! Che gioia mi ha dato la tua lettera con la foto del tuo sposo gigante! Siccome adesso sto indagando nelle fiabe dei fratelli Grimm, di La Fontaine, di Andersen ogni volta che mi imbatto in una fata penso a te, e nella mia fantasia ti trucco e ti abbiglio a seconda delle sue caratteristiche, e tu le hai sempre tutte, dai piedini alle manine – sai, stanno tutte su un palmo di mano, talune hanno le alucce, come la fata Campanellino che accompagna Peter Pan e che è un concentrato di femminilità vuoi alata vuoi terra terra. Ovviamente, per via degli “intrugli”, sei nei miei pensieri anche quando devo visualizzare una strega che mesta e rimesta nel paiolo alla ricerca dell’elisir di lunga vita... anche se una cosa del genere, insieme a quello dell’eterna gioventù, è più roba da clienti che per noi, i bellissimi così.

Dunque ti sei sposata, dopo anni e anni di vita nel peccato... Io non pecco più da secoli, lavoro molto, senza particolare entusiasmo e, purtroppo, ho smesso di scrivere. Dico purtroppo perché non so come impiegare il tempo, a parte sbattermi in maniera fittizia per poter poi poltrire a letto – dormire è il mio hobby preferito, l’unico momento della giornata che mi strappi un vero sorriso di soddisfazione di me e del fatto di essere umano, con l’aggiunta del privilegio economico di poter mettermi a letto quando voglio e per tutto il tempo che voglio. Ho rinunciato a essere curioso di ciò che accade fuori dalla mia testa, non accade mai niente in questo paese di bigotti neurovegetativi, almeno nei miei sogni trovo qualcosa di imprevedibile che mi diletta oltre misura, anche perché mi ricordo parecchio di quanto elabora la mia mente onirica. Chiudermi a chiave in camera è tuttora l’unico modo di non sentirmi solo.

Sai, sono ritornato alla Colonia Arnaldi un anno fa, un’impiegata aveva tanto insistito al telefono, tutto era rinnovato, tutto era di nuovo pimpante, nessun lavoro più in corso, e così ho prenotato dieci giorni; all’arrivo, di notte, mi sembra di vedere strani svolazzi di tessuti qui e là nel parco, ma non ci faccio molto caso; l’indomani, svegliato alle sette e mezza dai trapani del muratore proprio sotto la mia finestra, mi affaccio e vedo dei tricolori sopra le fronde; mah, penso, sta’ a vedere che sono volati lì a causa del vento e non si è avuto ancora il tempo di appoggiare una scala e di tirarli giù; scendo, esco dal Belvedere e... eccomi aggredito da grappoli di bandiere tricolori sparse qui e là nel parco, appese ai muri, occhieggianti tra le aiuole, non capisco che voglia dire, a parte l’inno occulto a Forza Italia e alla trimurti Dio/Patria/Famiglia; corro in direzione, chiedo spiegazioni, il nuovo direttore cerca di tergiversare con una spiegazione più strampalata dell’altra, l’anniversario della Colonia (di due anni prima...), un consesso di medici, “arredo del territorio”, chiedo di parlare col nuovo proprietario – un tracagnotto baffuto che trasuda sugna, un’omelia vivente al colesterolo e alla cirrosi epatica, la cui foto, a fianco di Bobby Solo, troneggia sopra il bancone -, cercano di contattarlo, mi raccontano una balla (non è in sede, allorché l’avevo appena sbirciato su per le scale del bar, senza ancora sapere che era lui), e allora detto il mio ultimatum: o via le bandiere o via Busi. Via Busi: ho pagato la nottata e me ne sono andato.

Ora ti lascio i miei numeri di telefono nuovi (ho dovuto cambiarli per via delle solite intimidazioni e chiamate anonime e profferte amorose a perdere ecc., giusto al telefono me lo promettono, dal vivo se lo tengono loro proprio come ce l’avessero davvero).

Un forte abbraccio a te, a tua madre e a tuo marito, chiamami appena puoi, io sono spesso a Roma, se passate di là fammelo sapere, posso trovarvi un rimasuglio di dolce vita.”. Ho preso una busta, in cima all’intestazione ho scritto “Alla Regina delle Fate” e l’ho messa sopra la boulle di Delatte in attesa di farla impostare, era una vita che non se ne vedeva una lì sopra, ne scriverò dieci all’anno; comunque ricevere posta è ben più odioso che spedirla, ci sono buste da cui riconosco all’istante chi mi scrive e che non apro nemmeno, non sono diverse dalla marea di depliant e di inviti a mostre e di cataloghi di vini e orologi e macchine sportive e paradisi di vacanza che inondano la sacca del postino destinato alla mia strada, tutti cercano di vendermi qualcosa, magari se stessi, e quanto alle donne, uno tsunami di donne, che implorano, mi duole dirlo, di essere prese gratis, le vampire.

Più invecchio, più l’etichetta “narrativa” mi infastidisce, più ancora di “romanzo”, se applicato a opere di Letteratura della modernità; non sono solo etichette riduttive, sono fuorvianti: sarà mica narrativa o romanzo “Vita standard di un venditore provvisorio di collant” o, più modestamente, “Alla ricerca del tempo perduto”! Purtroppo, per quanti sforzi abbia fatto, non sono ancora riuscito a far accettare la distinzione tra scrittore e autore: l’autore scrive narrativa, scrive romanzi, fiabe, gialli, polizieschi, inchieste giornalistiche o di costume e anche saggistica e poesia (Dante, Villon, Ungaretti, Caproni possono aspirare a essere considerati scrittori, che scrivano in rima o no non ha nessuna importanza, Milton, Montale, Rebora sono tutt’al più dei poeti, Goethe è un letterato come pochi, ma letterato resta, che scriva romanzi o poesia, come Leopardi, Manzoni, Carducci), un autore scrive libri etero, libri gay, libri sentimentali, libri per il single o per la coppia, libri per l’infanzia – ma non Andersen, che è uno scrittore tout court -, scrive cioè libri funzionali alla psicolabilità dell’acquirente di cartacei del momento, lo scrittore no. Lo scrittore scrive Letteratura, e non ha un destinatario reperibile e individuabile subito, non deve propinargli e fargli sapere un “come va a finire” per essere letto. Tu puoi parlare del testo di uno scrittore per ore e ore elencando personaggi e situazioni e ambienti senza né intaccarne l’interesse eventualmente suscitato né dire la parola definitiva che ne renderà ormai superflua la lettura, mentre se ti viene raccontata la trama fino in fondo o anche solo l’argomento del cartaceo di un autore poi non hai più voglia di prenderlo in mano; puoi leggere mille saggi su “Casanova di se stessi” e tutti insieme non ti lasceranno più vergine alla lettura che se lo prendessi in mano senza neppure sapere cos’è e chi l’ha scritto, mentre basta un accenno in più a un cartaceo di Dan Brown o Follett o di uno scribacchino sodale di Veltroni o di Bertinotti e sei sovrastato dalla noia al solo pensiero di poterlo anche leggere con i tuoi occhi. Ecco: l’opera di uno scrittore ognuno se la legge con i propri occhi, semmai, le risme di carta di un autore si leggono con gli occhi della massa per la quale sono state acconciate e immesse sul mercato. Ho visto Umberto Eco in un qualche marchettificio televisivo alcuni giorni fa, faceva promozione al suo ennesimo saggio al brodo di giuggiole, ha parlato di sicuro per più di quindici minuti senza dire, beato lui, niente e, al solito, facendo battute alle quali, credendole spiritose, reagiva innanzitutto lui con una risatina, per andare sul sicuro quanto alla giusta ricezione da semantizzare tra l’inclito pubblico. Era ovvio, ma così ovvio che se io lo fossi solo la metà della metà o i miei lettori verrebbero a incendiare me e le mie carte col lanciafiamme o, dato il povero paese in cui mi trovo a esprimermi, avrei finalmente il successo che mi merito grazie alla torma di non lettori che accalappierei – mentre, dato che non ce l’ho così, mi merito fino in fondo di averlo in pieno non avendolo proprio.

Ieri, infine, mi sono deciso a uscire dal letto e nel tardo pomeriggio sono andato alla Splash, una sauna di Desenzano del Garda che vanta una piscina lunga 25 metri dove non entra mai nessuno. Ci saranno stati un trecento uomini del genere gay e domenicale, dovevano essere tutti intenti a darsi da fare nelle zone riservate perché nemmeno nella sauna finlandese c’era anima viva. Be’ ho fatto i miei quindici minuti regolari di sauna secca in completa solitudine e poi, rimpiangendo di non potermi servire del bagno a vapore per non turbare il mio olfatto sottoponendolo alla prova dell’odor di glicine e di merdina fluidificata, le mie solite dieci vasche più una ventina di minuti di ginnastica in acqua e me ne sono andato a prendere un caffè e a fumarmi una sigaretta, dopo aver cercato invano di masturbarmi guardando un porno, ancora meno eccitante del porno mentale che deambulava sperduto nelle sue carni drogate dal mercatino dell’omo standard. Mi ha fatto pena vedere giovani con un’evidente erezione di origine farmacologica in bella vista sotto l’asciugamano, e dico farmacologica perché non si può andare in giro col cazzo eretto senza ragione, per niente, per tutti quei minuti e, suppongo, per tutte quelle ore: sono i forzati del Viagra, dai diciotto in su; mi è capitato più di una volta di trovare nel mio armadietto resti di contenitore di pastiglie con su nomi strani, “cia”... “cia”... un nome così. E’ risaputo che il consumo di droghe impazza fra i gay come fra tutti gli altri ghettizzati del divertimento limite, e l’impressione è che i cazzi stiano dritti per ore e che nessuno abbia mai un minuto per una sana eiaculazione di una volta, non comunque a tempo e non necessariamente quando è attesa e non grazie o a causa di un partner o almeno di una svista. Si inculano e pippano esattamente con la stessa solerzia con cui passano otto ore alla catena di un qualche montaggio dal lunedì al venerdì sotto gli occhi del caporeparto, è un dovere identitario, devono far vedere di essere bravi e efficienti e al passo coi tempi, mentre il macchinario gira a vuoto o produce comunque merce stupida per istupiditi dalla sindrome dell’apparire. Ho parlato con uno che fumava anche lui fuori, si è un po’ offeso perché non mi ricordavo di lui, è uno della mia età, io gli ho chiesto che marca di tinta usa, visto che aveva un dito di rosso tiziano che gli colava oltre la frangetta sbarazzina sulle rughe della fronte, dice che mi conosce dall’ottanta, che abbiamo tenuto banco svariate volte al bar della City, un’altra sauna, a Verona, mi ha intenerito quel suo ricordare di aver tenuto banco addirittura con me, non si accontentava di essere stato uno degli spettatori di un mio giocosissimo comizio improvvisato, era talmente rintronato che gliel’ho lasciato credere. Mi ha poi fatto notare che di tante volte che mi aveva visto in giro mai una volta che fossi con qualcuno, non nel senso che ero arrivato con qualcuno ma che nemmeno stavo in quel dato momento con qualcuno incontrato lì sul posto, o solo o attorniato da una folla, secondo lui, di adoratori. “Già, adorano me e se lo fanno allargare da un altro”, ho detto. Intanto, i fumatori erano diventati un gruppetto; abbiamo parlato un po’, io stavo sul vago, ma neanche tanto, mi stuzzicava, sicuro che gli avrei fatto da spalla io, gli ho lasciato evacuare alcune stronzatine né carne né pesce e poi ho detto la verità: “Gli uomini mi fanno schifo, mi fanno così schifo politicamente che non mi piace neanche l’odore di uomo, è da anni e anni che mi sforzo di trovarne uno che non mi faccia vomitare all’istante, ho una sessualità troppo sofisticata, vulnerabile, appartengo a un’altra epoca geologica, ho fatto il mio tempo, per mia fortuna, non è stato facile per me riuscirci, e poi il sesso è morto, è roba da secolo scorso, non lo fanno più neanche le donne e gli uomini, figurati te i culi, basta guardarsi attorno... fino a che io ho avuto quarant’anni gli organi sessuali non erano tesserati, tu credi di avere a che fare con un uomo e invece hai a che fare con un marchio dell’Arcigay, un istituto che ormai definirlo fascista è dire poco, non per niente è emanato dall’alto della sinistra di potere... dimmi te se è mai possibile che un adulto per entrare in un locale debba piegarsi a un tesseramento per essere autorizzato a piegarsi alla pecorina, non succede in nessun altro paese occidentale, in Spagna c’è il divieto di accesso ai minori di sedici anni e morta lì... ma sì, basta guardarsi attorno qui, non credo che tra i trecento e passa che sono qui adesso ce ne saranno più di quattro che oggi scopano come si usava scopare ai miei tempi, scopicchiano davanti o di dietro, si fanno le seghine con due dita e dopo un po’ che te lo succhiano gli devi ricordare che non è la canna del gas e tanto meno quella dell’ossigeno, scopicchiano secondo i guizzi mattoidi suscitatigli dalla ricetta di psicofarmaci che si sono fatti prescrivere o che si fanno dare dal loro pusher di riferimento, il solito assessore fidato, ma se gli metti sotto il naso una piadina con salsiccia forse sono più contenti e col sangue alla testa per qualcosa. I più, se non sono preti che danno falsi nomi per l’iscrizione Arci, sono sposati, quindici euro e si fanno la loro sudata sborratina, è anche una questione economica, un risparmio, sfogo è e sfogo rimane, mica entra in gioco un po’ d’amicizia, di allegria, di conversazione che non sia finta come loro, con una donna non te la cavi con meno di centocinquanta se vuoi un po’ di contorno sociale, di illusione di sentirti anche figo oltre che quel paio di coglioni negati a nessuno, le mogli fanno finta di niente, il bilancio famigliare non ne risente, è l’unica cosa che conta, e se questi invertiti delle feste raccomandate prendono uno scolo, visto che le scopano non più di una volta al semestre, hanno tutto il tempo di curarselo e niente ha mai una qualche conseguenza. In società gli uomini che desiderano altri uomini sono scomparsi, un certo tipo di sguardo per strada è finito, tabù, tu non sai le reazioni sanguinarie che può avere uno guardato un certo modo oggi, e magari è un frocio marcio che chatta su Gaydar otto ore a notte. Non si deve dare a vedere niente in pubblico, e poiché tutti sono omosessuali, nessuno è più omosessuale. A forza di niente di qui e niente di là e prestazioni sessuali da niente dentro cordoni sanitari come questo qua, però, diventano anche dei niente loro. Il posto è importante nel sesso, è il posto che fa l’avventura, mica chi ci incontri, in un posto super diventa super anche una schiappa come te e, volendo, come me. Vuoi mettere i posti di una volta, l’adrenalina che faceva pompare il midollo, il decadimento mica è una roba legata solo all’età, fatto sta che quei luoghi non ci sono più e non posso saperlo se mi sbaglio, ma non credo, perché non ho rimpianti né voglie tardive, ah i cinema, i treni, gli argini dei fiumi, i confessionali, i parcheggi... io mi sono inculato tutti i camionisti da Trieste a Aosta, perchè ci tenevo, e poi mi sembrava un controsenso erotico circuire un maschione al volante di un tir per farmi inculare da lui, me ne facevo un punto d’onore e di buone creanze... be’, vuoi mettere l’odore di frittata e di aglio e di cherosene di una cabina col lettino dietro con lo spray ascellare del Gabbana che inali qui dentro? Adesso, nessun rischio, nessun slancio, nessun risultato. Ah, il sesso virtuale... be’, di sicuro la coca esisteva anche allora, ma nessuno, nessuno di quegli uomini di quei posti ne ha fatto mai uso, io poi, figurati, sono contrario anche all’aspirina contro il mal di testa... e non parlo per me, io non sono arrabbiato e livoroso perché nessuno scopa mai con me, non si può scopare un mito vivente, anch’io ho mandato in bianco Nureiev, perdita d’anonimato perdita di tiratura, ma io me ne frego, io ho fatto fare il mio giro alla mia ruota quando era il mio momento, io constato, è una sessualità al rantolo in generale, è tutta una sovrastruttura, sostanza scarsina, e poi basta parlare con i cosiddetti giovani... togligli il sesso, ma non i loro tatuaggi, i loro piercing, il loro braccialetto di rafia, e la mamma sempre e poi, ovvio, la loro dose di tiramisù da naso e Dio. Ma sai che ci sono ancora finocchi che vanno a messa al giorno d’oggi e che votano Lega Nord e Alleanza Nazionale e Forza Italia e Ulivo e Rifondazione Comunista per via di quei due baciapile di Guadagno in Luxuria contraria all’Ici per la Chiesa e Vendola sempre a carretta di qualche reverendissimo monsignore? Anzi, sono i più. E non c’hai mai fatto caso ai musi lunghi che hanno ‘sti qui quando si rivestono e vanno via dalla sauna con la coda tra le gambe? All’infinita tristezza e servitù infinita che emanano? Hanno lavorato una settimana, sono venuti qui... e tutti con la certezza di portare via molto di più di quello che ci avrebbero portato... i miti, i sogni, le frustrazioni, le proiezioni, le belle ma inconsolabili vigliaccherie del furbone cattolico... e sono infelici, avviliti, vinti, sia se hanno sborrato sia se non hanno sborrato, e davanti hanno un’altra settimana in cui non succederà niente a parte quello che non è già successo la settimana prima. E poi, e l’attivo e il passivo, e che cosa ti piace fare... un inferno scontato, una lagna che lo farebbe andar giù anche alla Rosy... E’ già tanto se anche questa settimana sono riusciti a rimandare il suicidio...”. I fumatori hanno spento le sigarette alla svelta e sono scemati via a capo chino in un silenzio di frati dopo il vespro. Picchiarmi non potevano di certo, e darsi di staffile davanti a tutti nemmeno.

Nel rimontare in auto ho pensato con sollievo che non dovrò più avere meno età di quella che ho, che sono finalmente vecchio anch’io, e che, se c’è un po’ di giustizia almeno biologica, mi tocca vivere meno anni di un trentenne.

Ho acceso un’ombra di riscaldamento, mi faccio un paio di caldarroste e poi ritorno a coricarmi come piace a me, sul fianco sinistro, il braccio sinistro attorno al collo e la mano destra sotto il cuscino a attutire l’eccessiva morbidezza del cuscino.

Mi piacerebbe, un giorno che sarà, venir ritrovato così, con questa specie di sorriso al bacio fra le mani a alucce come un amorino del Mattaccio.


da “L’inconsapevole saggezza del prezzemolo”, un diario senza pretese, tanto per sgranchirmi le nocche.

Letteratura a titolo gratuito, può essere ripreso da qualsivoglia sito e blog ma non può essere stampato in volume che contempli fini commerciali - può, per fare un esempio, essere ripreso tale e quale in una tesi di laurea ma solo se resta in stretto ambito accademico.

Dagospia 31 Ottobre 2007

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