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sabato 14 giugno 2008

La tolleranza è un capitale creativo.

(Francesco Ramella) Il gay pride e la marcia dei rom hanno portato una frizzante ventata di diversità per le strade della capitale. Queste manifestazioni fanno da contraltare al clima pesante e un po’ cupo verso le minoranze che ha accompagnato l’inizio della legislatura. L’incertezza che pervade il Paese ha generato un’atmosfera di paura verso ciò che non conosciamo. Una chiusura difensiva che talvolta si trasforma in aggressiva intolleranza. O nel migliore dei casi alimenta un atteggiamento poco benevolo verso chi ci è estraneo, tanto più se lo percepiamo come differente: gli stranieri-clandestini, gli omosessuali, gli zingari e ora anche le prostitute. Questo clima di diffidenza sociale è l’altra faccia d’un timore del futuro che condanna il Paese al declino. Dobbiamo reagire. Sta a noi infatti decidere se vogliamo essere un paese impaurito, egoista, chiuso come quello che ci appare nella miseria dei raid contro i rom e gli omosessuali; o un paese moderno, dinamico, amante della «dolce vita» ma anche solidale e accogliente verso gli altri. Non poco del nostro avvenire dipende anche da come ci rapportiamo verso ciò che è «diverso» da noi.

Qualche anno fa un professore americano di studi urbani, Richard Florida, ha sviluppato un’interessante teoria che associa lo sviluppo economico alla proliferazione della cosiddetta «classe creativa»: le professioni ad alto contenuto di conoscenza e ricerca sia nel campo tecnico-scientifico che in quello artistico. Nei nuovi scenari della globalizzazione, l’innovazione rappresenta una risorsa chiave per lo sviluppo. La formula magica per la crescita economica è quella delle «3 T»: tecnologia, talento e tolleranza. Se i primi due assets costituiscono gli ingredienti fondamentali dell’innovazione, il terzo rappresenta però il fattore chiave per mobilitarli. La nuova geografia dello sviluppo premia soprattutto i territori capaci di attrarre i detentori del «capitale creativo». E questi soggetti prediligono le città che - afferma Florida - si contraddistinguono per «maggiore apertura, diversità e tolleranza». I luoghi in cui si costruisce il futuro sono quelli «aperti agli immigrati, agli artisti, ai gay e all’integrazione razziale». Per individuare questi contesti lo studioso ha utilizzato un indicatore piuttosto inusuale - un «indice gay» che misura la percentuale di omosessuali sul totale della popolazione - mostrando che questo risulta uno straordinario predittore della localizzazione geografica e della crescita dei settori produttivi più innovativi.

Non sembra azzardato fare uscire la riflessione sulle minoranze dal «ghetto» dei dibattiti sui diritti civili, cogliendone tutte le implicazioni in termini di qualità (e varietà) della nostra cultura e della nostra convivenza civile. Valutandone anche le implicazioni di lunga durata sulla capacità innovativa del nostro Paese. Un fronte su cui l’Italia risulta deficitaria a giudicare dai dati dell’European Innovation Scoreboard. Questo strumento, elaborato dalla Commissione Europea per monitorare annualmente i risultati della «strategia di Lisbona», si basa su un set di 26 indicatori che misurano la prestazione dei «sistemi nazionali della ricerca e dell’innovazione». L’Italia si trova nella fascia medio-bassa della classifica, con uno 0,33 che la colloca al di sotto della media europea (0,45) e a notevole distanza dai paesi più avanzati. Lontano non solo dagli Stati Uniti (0,55) e dal Giappone (0,60), ma anche dai paesi leader europei: Svezia (0,73); Svizzera (0,67); Finlandia (0,64); Danimarca (0,61); Germania (0,59) e Inghilterra (0,57). Non solo spendiamo poco per ricerca e sviluppo ma non facciamo niente per formare o attrarre i nuovi talenti. Insomma, chiudendoci a riccio nei confronti della diversità degli altri finiamo per non scommettere sul nostro futuro. Con il rischio - molto reale - di ritrovarci domani non solo più poveri... ma anche noiosi e antipatici.

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