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martedì 3 giugno 2008

Al Pride da destra.

(Gaytoday) Lo scorso anno ero al Gay Pride di Roma. Non mi pento della mia scelta, né la rinnego. Fino a quel 16 giugno 2007 non avevo mai ritenuto il Pride un evento fondamentale per il riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali. Mi aveva sempre dato fastidio il lato carnevalesco della manifestazione, mi irritava l'immagine che i mainstream media davano della parata.
Poi qualcosa è cambiato e il merito, anzi la terribile colpa, è del governo Prodi. I gay di centrosinistra avevano confidato molto nel ritorno del Professore a Palazzo Chigi, avevano investito nella candidatura di Vladimir Luxuria, molti di loro si erano imbarcati con immense speranze nel progetto fallimentare della Rosa nel Pugno. Ma l'Unione prodiana non poteva (e forse nemmeno voleva) approvare i Pacs, Dico, Cus, o tutte le altre strane formule alchemiche che puntavano al compromesso. Il centrosinistra era debole, con una maggioranza risicatissima, senza spazi di manovra. E i gay si accorsero presto, dunque, di essere stati traditi di nuovo. Lo hanno capito chiaramente e senza possibilità di smentite il giorno del Family Day, quella retriva manifestazione a favore della famiglia (come se qualcuno abbia intenzione di distruggerla) che aveva riempito piazza San Giovanni in Laterano. C'erano anche ministri del governo Prodi e la comunità GLBT aveva finalmente aperto gli occhi: nemmeno Prodi avrebbe messo fine alla discriminazione nei confronti dei gay italiani.

E quello stesso giorno parte la mia personalissima ribellione. Liberale di centrodestra, ho sempre diffidato di pasionari dei diritti civili, di movimenti GLBT spesso troppo simili a un pollaio dentro il quale ci si becca e si litiga per una fetta (nemmeno così grossa) di potere. E intanto la lotta per il riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali va a farsi fottere. Però quella mia ribellione non ammetteva ripensamenti né distinguo. Dovevo scendere in piazza con il movimento, con migliaia di persone che la pensano in maniera diametralmente opposta, con gente come Imma Battaglia, Vladimir Luxuria, Titti De Simone, Aurelio Mancuso, tutta gente culturalmente e politicamente distantissima dal mio modo di vivere. Eppure c'ero, e non mi sono mai pentito di quella scelta. Era sicuramente una scelta politica, connessa alle rivendicazioni avanzate. Ma c'era anche, di fondo, una voglia di riaffermare la laicità del popolo e dello Stato italiano.
E' fondamentale, oggi più che mai, far capire a politici e vescovi che nel mondo libero e democratico esistono solo nazioni laiche, attente alle esigenze di qualsiasi credo religioso ma assoggettate a nessuno di essi. E' l'esempio degli Stati Uniti, così pervasi da vigore religioso eppure allo stesso modo consci che prima di ogni cosa vengono i diritti e le libertà dell'individuo. Per non parlare poi della laicissima Francia e degli Stati nordeuropei, ormai lontani anniluce dal bigotto "baciapilismo" dell'Italietta. Stretta come cinquant'anni fa tra Don Camillo e Peppone, l'Italia del 2007 restava a guardare il mondo che andava avanti a ritmi vertiginosi. Era tempo di mostrare prima a noi stessi e poi al mondo che l'Italia poteva diventare (perché non lo è ancora, non illudiamoci) una democrazia matura. Ecco perché c'ero, ecco perché rivendico ancora quella scelta.

E quest'anno? Ebbene, se è possibile il mio convincimento è ancora maggiore.
Se l'anno scorso l'Italietta era quella di Don Camillo e Peppone (cioè Chiesa, comunismo e postcomunismo, miei avversari culturali da sempre), nel 2008 si confrontano due don Camillo, dopo la decisa virata verso il centro impressa a Walter Veltroni al neonato Pd. E quindi spazio maggiore al "baciapilismo", alle colpevoli contiguità con le mura vaticane. Ecco che l'Italia si trasforma nella dependance del Vaticano, mentre si riaffacciano anche rigurgiti razzisti che di liberale hanno davvero ben poco.
L'Italia del 2008 è dunque peggiore di quella del 2007. E' una frase che mai avrei creduto di scrivere, pensare o pronunciare. E invece è così. I gay italiani forse se ne sono accorti. Ma non si illudano che tutto è frutto della vittoria di Berlusconi o della scomparsa della sinistra radicale. L'Italia è ridotta in questo pietoso stato di demenza civile per motivi storici e culturali. Ecco che la rivoluzione deve essere innanzitutto trasversale, scevra da divisioni ideologiche e politiche all'interno del movimento.
Io sono stato al Gay Pride l'anno scorso e ci sarò quest'anno proprio per questo motivo: dimostrare, nel mio piccolo, che le battaglie giuste e di civiltà non hanno colore né schieramento; che se vogliamo cambiare la mentalità italiana dobbiamo farlo unendo le migliori intelligenze e sensibilità della nostra società senza dividerci in guelfi e ghibellini; che il movimento GLBT deve smetterla di fare politica vecchia e tradizionali ma trasformarsi definitivamente in una lobby trasversale che ha una meta e lotta senza limiti politici per raggiungerla.
Quest'ultimo punto è quello che mi preoccupa di più. Il movimento GLBT italiano non è maturo per un passo del genere. Non siamo in America, né in Spagna. Siamo in Italia. Per fortuna o purtroppo.

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