Ha tratti che sembrano mutuati da Sartre, invece, il pensiero di Nigel Charnock: “Tutto ciò che esiste è ciò che accade. Esserci è accadere. La maggior parte di noi vive nell’utopia di essere un individuo completamente separato dal mondo che lo circonda. In realtà nessuno di noi è completamente libero di compiere le proprie scelte. La danza è movimento immobile e il suono è silenzio che suona. Questo è tutto ciò che esiste ed è ciò che sta accadendo per ognuno di noi”.
La creatività nasce dalla riflessione, dal silenzio e si trasforma in danza e in azione per Bruno Catalano (compagnia PiccoliProduction), che dice: “Spesso il silenzio accompagna le nostre prove. Il silenzio permette di capire cosa è necessario. Ci si muove se si ha una ragione per farlo o semplicemente se si ha la voglia di farlo. Il silenzio sottrae alla danza quello che non è necessario dichiarare, ma far soltanto supporre. A volte il silenzio lascia tracce indelebili, solchi profondissimi. È da queste fessure che noi proviamo a comprendere la nostra contemporaneità, è da questi spiragli che noi traiamo spunti per i nostri passi di danza, per essere nel mondo, per esistere”. Un’idea simile viene da Roberto Zappalà (compagnia Zappalà Danza): “Credo sinceramente che voler gridare la propria esistenza non sia sempre necessario. Basterebbe essere coerenti con se stessi e solo eccezionalmente manifestare con forza le proprie idee, la propria identità, presenziare gli spazi, puntare all’onestà di un corpo da accettare con i limiti che lo caratterizzano, nella continua ricerca della migliore azione tra quelle possibili. Questa è la mia idea di esistenza” dice il coreografo “questa è la mia idea di contemporaneità, la mia idea di danza”. Sono parole che sembrano distillate da antichi proverbi zen. Mentre Lisbeth Gruwez sceglie di prendere in prestito le parole di Ezra Pound: “Il silenzio è la quarta dimensione, il potere della bestia selvaggia”. La carellata prosegue con Laila Diallo: “Secondo me esistere, oggi, significa trovare la propria strada passando attraverso i valori della coerenza, i riferimenti personali e l’influenza di ciò che ci circonda. La natura fluida, costantemente in mutazione di tutto questo, è qualcosa non molto distante dalla danza”.
Elegante e impietosa, dice Ariella Vidach: “Apprezzo gli artisti che esprimono con la loro arte l’impegno verso il rinnovamento del linguaggio, proponendo attraverso visioni contemporanee quelle forme che il tempo a volte consuma. La danza in Italia non ha la voce che merita, è trascurata, ignorata, ma la tensione verso questa forma d’espressione sembra non voler abbandonare i cuori e le menti di chi la pratica e di chi la segue. La difficoltà che si incontra nel praticare quest’arte, non deve influire sulla tensione e la passione che induce a creare. Sarebbe senz’altro il silenzio più tragico. Se la situazione attuale non ci fa parlare è giusto, anche sussurrando, urlare il desiderio e la voglia di raccontare il nostro tempo. È più facile sopportare il silenzio di chi non può parlare che quello terrificante di chi non ha più niente da dire”.
Non hanno paura di andare contro corrente Michael Bugdahn e Denise Namura della Compagnie à fleur de peau. Il loro pensiero si può riassumere nell’antico monito: Apri la bocca solo se sei sicuro che quello che dirai è più bello del silenzio. “Ci siamo ispirati proprio a questa frase” dicono “Quando noi artisti creiamo, pensiamo che sia il senso a far esistere la nostra danza e noi con e per lei. La contemporaneità” aggiungono “non dovrebbe obbligatoriamente essere un obiettivo o una qualità. Troppo spesso non si fa che riprodurre il “contemporaneo” di un’epoca passata, il vuoto. Forse non è una visione dell’arte esattamente alla moda, ma essere alla moda vuole necessariamente dire essere contemporaneo? Il nostro solo obiettivo, la nostra grande emozione, è danzare oggi per esistere sempre”.
La Compagnia Schuko, per dare una definizione di esistenza parte dal Devoto Oli “essere nella realtà, far parte delle cose reali” E aggiunge “Danzare è una cosa reale, il corpo è reale, il peso e la forza di gravità sono reali. Il movimento è reale e danzare per noi è soprattutto muoversi, far circolare energia, spostare aria, creare cambiamento. Della contemporaneità temiamo la stasi che si cela dietro la frenesia e l’anestesia prodotta dalla saturazione dei sensi. Per noi danzare è tenere acceso il motore, produrre realtà più che riprodurla”. E se per loro l’accento è su chi si muove, Juan Diego Puerta Lopez si rivolege invece a chi resta immobile e guarda: “Danzare vuol dire per me esistere, la danza è già un atto di vita, generativo. Ma ogni forma di creazione, ogni opera d’arte ha bisogno di un ascolto, di uscire dall’isolamento creativo altrimenti non avrebbe il confronto necessario con l’ascoltatore, con lo spettatore, che è necessario perché l’opera possa respirare, vivere”.
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