(Avv. Matteo Santini - Avvocato del Foro di Roma) Negli ultimi tempi si discute vivacemente sull‘opportunità di regolamentare in modo più o meno dettagliato le cosiddette unioni di fatto, vale a dire quelle convivenze stabili tra due soggetti non legati tra loro da vincolo matrimoniale, possa trattarsi di matrimonio celebrato con rito civile o concordatario. Prescindendo da quelli che ad oggi rappresentano esclusivamente dibattiti dottrinali o proposte normative, esaminiamo se e come attualmente vengono disciplinati i rapporti personali e patrimoniali tra i conviventi more uxorio. Innanzitutto è doveroso, a scanso di equivoci, rilevare che la mancata celebrazione del matrimonio non incide affatto sui diritti spettanti ai figli nati dai genitori non coniugati i quali, per espressa disposizione di legge, sono equiparati in tutto e per tutto ai figli nati da coppie coniugate. Di conseguenza oggi, a differenza di ciò che avveniva in passato, la distinzione tra figli naturali e figli legittimi non ha più ragione di esistere. L’equiparazione dei diritti significa, d’altro canto, equiparazione degli obblighi a carico dei genitori nei confronti della prole rispetto agli obblighi dei genitori coniugati. Ci riferiamo in particolar modo all’obbligo di educare, istruire e mantenere i figli. Così come nelle cosiddette famiglie tradizionali, anche all’interno delle famiglie di fatto, ciascuno dei genitori ha l’obbligo giuridico di mantenere i figli proporzionalmente alle proprie sostanze ed al reddito. Stesso obbligo permane nel caso in cui la coppia decida di porre fine alla convivenza come d’altra parte accade in caso di separazione o divorzio tra genitori coniugati. Per ciò che concerne i diritti ereditari possiamo addirittura affermare che i figli sono maggiormente tutelati nel caso in cui i genitori non siano legati da vincoli matrimoniali; infatti in assenza di coniuge l’intero patrimonio del genitore deceduto, sarà attribuito al figlio o ai figli; mentre, ove il genitore al momento del decesso dovesse risultare coniugato, parte del patrimonio verrebbe assegnato al coniuge superstite. Il problema va pertanto focalizzato sul rapporto personale tra i soggetti che decidono di iniziare una convivenza. Ritengo personalmente che la questione della regolamentazione delle unioni di fatto sia stata spesso enfatizzata ed esasperata sino ad erigerla a vera e propria battaglia politica, il tutto incentrato sull’elemento base del matrimonio e sul significato che la Costituzione Italiana attribuirebbe al concetto di famiglia. Ma a ben vedere molte delle problematiche e delle questioni giuridiche che possono nascere all’interno di una coppia non sposata, sono disciplinate e trovano la loro soluzione all’interno del nostro diritto positivo e di norme che se pur non create ad hoc per disciplinare i rapporti tra conviventi, ben si adattano ad essere applicate in molteplici casi soprattutto in assenza di una disciplina specifica della materia. Pertanto, attualmente, il problema reale diventa quello dell’individuazione di tali norme e semmai quello di una raccolta organica di tali disposizioni anche al fine di renderle accessibili e conoscibili ai non addetti ai lavori. Ritengo che ad oggi quasi tutte le problematiche aventi risvolto giuridico relative ad un rapporto di fatto possano essere regolamentate pattiziamente tra le parti attraverso veri e propri contratti denominati “contratti di convivenza”. Il punto focale è quello di identificare quali siano i limiti e quale sia l’estensione massima di tali accordi. Ma il problema in effetti non è poi tanto differente da quello che gli operatori del diritto affrontano ogni giorno nell’ambito della propria attività ermeneutica; si tratta cioè di capire fino a che punto si possa spingere l’autonomia negoziale delle parti e quali siano i diritti indisponibili sui quali non è ammesso incidere ad opera delle parti; ma si tratta anche di comprendere se ed entro quali limiti le norme dettate dal legislatore in campo contrattuale siano adattabili ed applicabili ad una materia che senza dubbio presenta aspetti peculiari rispetto ad un rapporto contrattuale strettamente inteso. Nulla questio sulla possibilità per i conviventi di acquistare beni immobili o mobili in situazione di comproprietà, eventualmente anche concordando sui beni stessi l’attribuzione di quote di proprietà differenti. Per quanto concerne i diritti successori, non essendovi attualmente alcuna norma che attribuisce diritti in tal senso al convivente superstite, i soggetti hanno la piena libertà di nominare erede l’altro coniuge mediante la redazione di un testamento all’interno del quale venga disposto che una quota di eredità (o anche tutta, ove non siano lesi i diritti di soggetti legittimari), sia destinata al convivente superstite. Tali disposizioni non potranno comunque essere inserire nel contratto di convivenza ma dovranno essere oggetto di uno specifico testamento redatto nelle forme prescritte dal codice civile; altrimenti si incorrerebbe nel divieto di patti successori, determinando la nullità della clausola. Le parti possono altresì statuire sulle modalità di esercizio dei diritti sui beni acquistati in comune e sulla sorte di tali beni al momento del venir meno della convivenza. Sarà sufficiente inserire tali disposizioni all’interno del contratto di convivenza, il quale come tut ti i contratti ha forza di legge tra le parti. E’ assai frequente che i conviventi indichino nel contratto anche la misura della partecipazione di ciascuno alle spese ordinarie e straordinarie, in base alla proprie capacità di reddito e sostanze e che venga anche valutato ai fini della distribuzione degli “sforzi” familiari l’apporto di lavoro domestico prestato dal coniuge non lavoratore. Anche l’educazione dei figli è un elemento spesso regolamentato all’interno dei contratti di convivenza. La coppia, può concordare un determinato indirizzo educativo relativo alla prole, purché ovviamente tali disposizioni non violino norme di legge inderogabili e non siano contrarie all’interesse della prole. Ulteriori previsioni potranno concernere i più svariati settori, citando a titolo esemplificativo e non esaustivo, gli accordi sulla scelta delle vacanze, sui viaggi, sull’impiego di risorse comuni, ecc. Una questione di particolare importanza è rappresentata dalla sanzionabilità o meno di eventuali azioni compiute dal convivente in violazione alla disposizioni contenute nell’accordo di convivenza. A parere di chi scrive, le parti possono tranquillamente inserire nel contratto eventuali penali in caso di mancato rispetto delle statuizioni contrattuali suscettibili di valutazione economica, purché la singola obbligazione non sia in contrasto con norme inderogabili di legge o non incida su diritti di natura indisponibile. Ad esempio una clausola contenente l’obbligo per il coniuge di concedersi sessualmente all’altro oltre ad essere nulla per contrarietà al buon costume, comporterebbe inevitabilmente la non sanzionabilità di un comportamento posto in essere in violazione della stessa, e ciò in quanto si tratta di diritto che non è suscettibile di divenire oggetto di pattuizione contrattuale. Lo stesso dicasi per un eventuale obbligo stabilito a carico delle parti di non trasferire la propria residenza in un determinato luogo; infatti una disposizione di tale natura striderebbe con il diritto alla libera circolazione garantito dalla Costituzione. Il parametro di riferimento ed il limite invalicabile è pertanto rappresentato dall’esistenza di diritti e di libertà che non possono essere oggetto di limitazione neppure con il consenso degli stessi interessati. Una disposizione che preveda una penale a carico del convivente che pone fine alla relazione prima di una determinata data sarebbe nulla in quanto determinerebbe in primis una grave menomazione delle libertà della persona ed in secundis mancherebbe il requisito della patrimonialità necessario affinché un’obbligazione possa essere dedotta in un contratto. Ritengo inoltre che anche in riferimento ad un eventuale obbligo di fedeltà sia molto difficile ipotizzare l’ammissibilità di una sanzione pecuniaria derivante dalla sua inosservanza, proprio in virtù della non disponibilità del diritto alla libertà sessuale e della natura non patrimoniale del diritto. Diversamente il convivente tradito potrebbe agire in giudizio, qualora il comportamento infedele dell’altro abbia determinato un danno di natura non strettamente patrimoniale, quale potrebbe essere un danno alla vita di relazione. La clausola sull’obbligo di fedeltà pur non avendo una vera e propria valenza giuridica e ciò non solo per l’indisponibilità del diritto ma anche per la non patrimonialità dello stesso, può essere comunque inserita nel contratto (senza che ciò infici in alcun modo la validità dello stesso), come dovere di natura morale, ovviamente non sanzionabile giuridicamente. Ma l’aspetto che più di frequente spinge le parti a decidere di stipulare un contratto di convivenza, è la regolamentazione dei rapporti patrimoniali in previsione di una futura ed ipotetica rottura del rapporto. Queste disposizioni sono spesso orientate nell’assicurare al convivente più debole una forma di assistenza anche successivamente al venir meno della convivenza. Si tratta di una forma assistenziale e di soccorso ritenuta certamente meritevole di tutela dal nostro ordinamento, anche in virtù del vincolo di solidarietà che ha unito due soggetti per un lungo periodo di tempo. Ritengo che nell’inserimento delle disposizioni contrattuali sia sempre molto importante valutare clausola per clausola l’aspetto sinallagmatico; vale a dire, la prestazione oggetto dell’obbligazione dedotta in contratto deve essere posta in corrispondenza biunivoca con un’altra prestazione, di natura reale o obbligatoria, a carico dell’altro convivente. Il sinallagma contrattuale e l’esistenza di prestazioni valutabili da un punto di vista patrimoniale, consentono di conferire all’accordo di convivenza, piena valenza contrattuale. Sulla forma dei contratti di convivenza, è lapalissiano che in considerazione della delicatezza degli argomenti affrontati sia opportuno redigerli per iscritto, anche se nessuna norma impone tale forma per la redazione degli stessi. Qualora nel contratto siano inserite pattuizioni relative a negozi che richiedono una forma ab substantiam, la stessa forma dovrà essere adottata per la redazione del contratto di convivenza. Si consiglia comunque di redigere il contratto nella forma della scrittura privata, eventualmente autenticata da un Pubblico Ufficiale. La sottoscrizione del Pubblico Ufficiale (ad esempio il Notaio), avrà come fine quello di autenticare le sottoscrizioni delle parti e di attribuire data certa all’atto. La certezza della data potrà comunque essere garantita anche in altro modo, come ad esempio mediante notifica a mezzo di Ufficiale Giudiziario del contratto. Sulla base di quanto testé affermato possiamo tranquillamente concludere che pur in assenza di una regolamentazione organica della materia, la convivenza tra due soggetti può essere oggetto di specifico accordo tra le parti, mediante la stipula di un contratto di convivenza, che in quanto non contenente clausole contra legem, è pienamente valido ed ha efficacia di legge tra le parti. Il problema del riconoscimento delle cosiddette coppie di fatto è pertanto più teorico che pratico o forse oserei dire più politico / sociale che giuridico. Gli aspetti più importanti che nettamente differenziano ad oggi il trattamento riservato alle coppie sposate rispetto a quelle di fatto, sono rappresentati dall’automaticità di alcuni diritti spettanti ai soggetti sposati, che vengono ad essi attribuiti per il solo fatto della celebrazione del matrimonio e che permangono anche successivamente all’eventuale scioglimento dello stesso. Ci riferiamo 1) ai diritti successori del coniuge, il quale rientrando tra i legittimari non potrebbe in alcun modo essere escluso dalla successione del coniuge deceduto ma al quale anzi è per legge riservata come quota legittima una cospicua parte del patrimonio del coniuge deceduto; 2) alla pensione di reversibilità che spetta al coniuge supersite o anche al coniuge separato che al momento del decesso dell’altro beneficiava dell’assegno divorzile; 3) ad una quota spettante la coniuge divorziato sul trattamento di fine rapporto dell’altro coniuge. Ad una attenta analisi rileviamo come tali diritti possano essere attribuiti anche attraverso la sottoscrizione di un contratto di convivenza tra soggetti non uniti in matrimonio, il quale preveda l’obbligo per il soggetto di corrispondere all’altro convivente una parte del proprio TFR o l’obbligo di stipulare un assicurazione la quale preveda che in caso di morte di uno dei soggetti, sia riservata all’altro una somma di denaro una tantum o sotto forma di vitalizio. Lo stesso discorso vale per i diritti successori; ben possono i conviventi fare testamento istituendo come erede l’altro convivente. Il punto di divergenza sostanziale tra le due forme di unione è a parere di chi scrive, quello che in caso di matrimonio tali diritti sono attribuiti ai coniugi automaticamente e senza che sia necessaria la volontà ed il consenso dell’altro (che comunque viene prestato in occasione della celebrazione del matrimonio), mentre il caso di convivenza tali diritti devono essere espressamente previsti e attribuiti mediante la sottoscrizione di un contratto. Si diventa pertanto titolari in caso di matrimonio di alcuni diritti, per il solo fatto di essere sposati e tali diritti spesso permangono in capo ai soggetti anche successivamente allo scioglimento del vincolo. In effetti con il matrimonio le parti limitano in modo sostanziale la propria autonomia negoziale, da un lato rinunziando a taluni diritti, dall’altro divenendo titolari di altri. Con il matrimonio, le parti sono maggiormente garantite da un punto di vista patrimoniale, potendo contare sull’obbligo a carico dell’altro coniuge di compiere una serie di prestazioni patrimoniali, anche successivamente allo scioglimento del vincolo. Ma a ben vedere lo stesso risultato è ottenibile mediante un semplice accordo di convivenza. Ciò che cambia è la forma del consenso; nel caso di matrimonio prestato dinnanzi ad un ministro di culto o ad un ufficiale dello stato civile; nel caso di accordo di convivenza prestato dinnanzi ad un notaio a semplicemente sottoscritto tra le parti.
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