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venerdì 8 agosto 2008

Pechino: l’abc del turista olimpico.

(Giacomo Amadori - Panorama) Nella centralissima via Wangfujing un giovanotto trascina per i capelli una ragazza elegante. Lei si dimena, lui la ammansisce con una scarica di pugni. La gente osserva senza reagire. Un italiano protesta, il bruto lo squadra: «È la mia fidanzata, non ti devi impicciare». Un vecchio chiosa: «È vero, la Cina è il primo paese nella classifica della violenza contro le donne, ma l’Italia è al secondo posto». Inutile domandare l’origine della statistica. Gli abitanti di Pechino amano le loro contraddizioni. Hanno 4 mila grattacieli e vicoletti fumanti di scorpioni fritti, una tangenziale lunga 300 chilometri e milioni di neopatentati che superano a destra, negozi scintillanti e strade coperte di sputi, bambini con i pantaloni squarciati per agevolare i bisogni e interminabili limousine blindate. Per questo chi atterra a Pechino per le Olimpiadi potrebbe sentirsi disorientato. Ecco un piccolo manuale di sopravvivenza.

Una città ai raggi X
Chi giunge all’aeroporto di Pechino capisce subito l’aria che tira. Già al nastro dei bagagli, i cani annusano i passeggeri alla ricerca di droghe ed esplosivi. In città i metal detector sono ovunque, soprattutto in stadi, metropolitane, sottopassaggi e intorno a piazza Tienanmen. Conviene armarsi di pazienza: macchine fotografiche e telecamere mandano in tilt i funzionari. Un bodyguard ha usato il cellulare del cronista per verificare che non fosse una bomba.
Smog e libellule
Il cielo sopra Pechino, a causa dell’inquinamento, è un’indistinta gelatina grigia. Ma per respirare, almeno durante le Olimpiadi, non serve la mascherina. Il governo, quando occorre, spara missili con ioduri d’argento tra le nuvole e rinfresca l’aria con la pioggia. Qualche volta si scorge il sole. Nelle aree verdi c’è un assordante frinire di cicale e in piazza Tienanmen è facile avvistare le libellule.
Bagarini cinesi
Nonostante i biglietti siano ufficialmente esauriti, sono annunciati moltissimi bagarini. Un segnale: venerdì scorso sono stati messi in vendita gli ultimi 250 mila tagliandi, a prezzi ultrapopolari (alcuni a meno di 3 euro): in coda c’erano circa 200 persone che hanno rifatto la fila decine di volte.
Inglese
L’inglese qui non lo parla quasi nessuno. Gli organizzatori hanno bardato con fasce o magliette migliaia di «volunteer», ma gli anglofoni sono pochissimi. Portatevi un vocabolarietto di cinese e mostrate le parole. Per gli acquisti, no problem: i prezzi esposti sono in cifre arabe e i commessi trascrivono i conti su foglietti e calcolatrici. Al Silk market, paradiso della contraffazione, chi non ama essere toccato non entri. Diverse trattative si sono concluse con lanci di oggetti.
E per cena…
A Pechino si può mangiare di tutto, cane compreso, anche se in pochi sanno dove si cucini. Per chi volesse provare, la pronuncia è: gou rou wang. Chi vive in città da anni giura che per le Olimpiadi sono spariti i venditori ambulanti di spiedini, scorpioni e zuppe varie. In un vicoletto dietro a Tienanmen un passerotto legato a un filo annuncia una piccola osteria. All’interno, in una saletta piena di mozziconi, una signora scorbutica serve ottimi ravioli e fagottini di carne. Un pasto completo costa un euro e mezzo. In un negozio di dolciumi una commessa consiglia «cuori d’anatra da sgranocchiare con la birra». Buon appetito.

Mao sul fermacravatta
Il regime comunista nella Pechino olimpica è quasi invisibile. L’unico assaggio di socialismo reale lo offre internet, dove la censura colpisce ancora. Per esempio Panorama non è riuscito ad accedere ai siti che inneggiano al Tibet libero, ai video su Youtube sulla repressione della rivolta studentesca del 1989 e all’agenzia di stampa collegata al Vaticano, Asianews. Tra i pochi segni evidenti del passato che non passa sopravvivono il ritratto di Mao Zedong in piazza Tienanmen, alcuni esempi di architettura socialista e l’infinità di bandiere rosse della Repubblica popolare che sventolano ovunque (dai taxi alle biciclette). I più nostalgici possono visitare il mausoleo di Mao (chiude tutti i giorni a mezzogiorno), dove un vessillo con falce e martello copre la mummia del Grande timoniere. In fila quasi solo cinesi con mazzi di fiori. Prima di uscire si attraversa un bazar di paccottiglie dove si possono acquistare ritratti e busti (da 36 a 50 euro), ciondoli a cuore, orologi, ma anche fermacravatte con la testa di Mao (18 euro).

Religione
Si dice che i rapporti della diocesi con il governo dopo l’arrivo del vescovo Li-Shan, nominato dall’Associazione cattolica patriottica con il consenso del Vaticano, siano migliorati. Eppure per pregare i cattolici cinesi devono rispettare orari da cercatori di funghi. Nella Cattedrale meridionale, la chiesa più importante della città, le messe in lingua locale e in latino sono celebrate dalle 6 alle 8. La domenica due funzioni in inglese, alle 10.30 e alle 16. Nell’East church di Wangfujing, l’ultima messa è alle 8 del mattino. Numerosi volontari in maglia gialla (che si dichiarano cattolici) accolgono i turisti nelle chiese. Un’addetta particolarmente espansiva chiede di fotografare il cronista. Sa tanto di foto segnaletica. Le guide maneggiano una specie di glossario minimo del bravo fedele, in inglese e cinese. Si va da «God», Dio, a Jesus Christ, a «Mary, mother of God», Maria, madre di Dio. Di Papa Benedetto XVI nessuna traccia. Nelle brochure che vengono consegnate ai visitatori a Saint Joseph si legge: «Fortunatamente la chiesa è sopravvissuta alla turbolenza della Grande rivoluzione culturale». Un grazioso eufemismo. Non mancano i banchetti di souvenir: una croce da appendere al collo costa 1 euro, una copia del Nuovo testamento 3. Stesso clima «normalizzato» nel tempio dei Lama. All’ingresso, mezza dozzina di negozi di incensi e nessuna bandiera cinese (solo qualche libretto rosso un po’ nascosto). Anche qui una lapide seppellisce per sempre il terrore comunista: «Il tempio è sopravvissuto ai dieci anni di turbolenza della Rivoluzione culturale grazie al premier Zhou Enlai». Nonostante i progressi, nella libreria non c’è notizia del Dalai Lama.

Karaoke e discoteche
Il vero pericolo per i turisti è finire nella via dei karaoke bar, a San Li Tue. Fuori migliaia di lucine natalizie illuminano gli alberi, dentro ragazze stonate assordano vichinghi straniti. Molto meglio i locali intorno allo Stadio dei lavoratori, discoteche alla moda come Babyface, Cocobanana, Angel o Cargo. Per il popolo gay c’è il Destination: porta d’acciaio smaltato perennemente chiusa. All’interno, però, c’è vita. I parcheggi della zona sembrano autosaloni di lusso, i dj diffondono musica occidentale, dal R&B all’hip-hop. Un cocktail costa meno di 5 euro. Sui tavoli dei privé quasi ovunque caraffe di tè verde, bottiglie di whisky e scatole di dadi, il gioco più in voga nelle notti pechinesi. La droga non manca. «Con le Olimpiadi sono aumentati i controlli» assicura Jon, ventenne basco, da due anni a Pechino, «ma qui si sballa di più che in Occidente e a prezzi migliori».

Sesso
Comprare sesso a Pechino è facilissimo. Già sulla turistica San Li Tue gli stranieri vengono avvicinati da giovanotti che promettono «ladies in hotel». Obbligatorio per chi ama un ambiente un po’ rétro visitare il Club Suzie Wong, ispirato all’omonima prostituta cinematografica. Ragazze sveglie agganciano i turisti. Basta un sorriso o un brindisi. Jennie, vestito di raso verde e tratti mongoli, si offre con un’amica per 200 euro, anche a domicilio. Al Babyface, locale più sofisticato, una «studentessa» del Sud abborda gli stranieri al bar: «Di dove sei?». Dopo mezz’ora insieme dice di essere stanca: «Vuoi venire a casa mia?». Il turista si sente un Casanova. Lei estrae il cellulare e digita il prezzo: «150 euro».
Per gli amanti dei massaggi «particolari» (la città pullula di centri di questo tipo e di barberie a luci rosse) non mancano le spa di lusso. Soprattutto quelle di Dongzhimen. Per i più pigri, servizi a domicilio, con «www.playboymassage.com»: una ventina di bellezze locali in vetrina virtuale, disponibili a circa 80 euro, taxi compreso.

Sì, viaggiare
L’esperienza più formativa a Pechino è il rapporto con i tassisti. Adorano l’aglio, spesso sfoggiano unghie lunghissime e non parlano inglese.
«Abbiamo un numero verde per le traduzioni in tutte le lingue» assicura Fen Xi Chuan, quarantenne robusto. Probabilmente lo trovano sempre occupato. Chi mostra un indirizzo in cinese, si trova spesso davanti uno sguardo interrogativo. Anche perché molti sono analfabeti e la città è sterminata.
Qualcuno arruola come navigatore un passante. Se si arriva a destinazione i prezzi sono popolari (circa 5 euro per quaranta minuti di viaggio) e il tassametro è sempre acceso.
Chi non ama l’avventura può optare per autobus e metropolitana, resi efficienti per le Olimpiadi. Non resta che partire. E incrociare le dita.
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