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venerdì 8 agosto 2008

Elezioni Usa. Presidente Obama, forse.

(Cristhian Rocca - Il Foglio) In teoria non ci dovrebbe essere partita, Barack Obama vincerà le elezioni del 4 novembre e il 20 gennaio a mezzogiorno in punto sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti. In realtà non è affatto così, malgrado l’entusiasmo e la passione e una campagna elettorale perfetta contro un avversario repubblicano in preda al panico, confuso e odiato da buona parte della sua stessa base elettorale. Non si era mai vista una situazione così favorevole per un esponente del Partito democratico, a meno di tre mesi dal voto. Forse solo nel 2000, quando Al Gore, da vicepresidente in carica ed erede degli anni dell’abbondanza clintoniana, si era trovato ad affrontare l’impacciato figlio dell’ex presidente Bush. Eppure, in quella favorevolissima occasione, il democratico Gore ha perso, sia pure di un soffio, in modo contestato e con una leggera prevalenza di voti popolari.
Per Obama sembra più facile. E’ vero che l’America è una nazione conservatrice (delle sue ampie libertà costituzionali), al punto che dal 1968 ha aperto le porte della Casa Bianca soltanto a due democratici, e in entrambi i casi in circostanze eccezionali. Questa volta la fisiologica fatica del doppio mandato pesa sui repubblicani e il presidente uscente è ai minimi storici di gradimento. C’è poi la percezione di una crisi economica e finanziaria, l’inaudito costo della benzina in un paese che si muove su strada e i numerosi fallimenti gestionali dell’Amministrazione, dall’uragano Katrina alla crisi dei mutui. Più controverso appare il ruolo che giocherà nelle urne la guerra al terrorismo, visto che secondo alcuni analisti premia il candidato che si era opposto all’intervento in Iraq (Obama), mentre secondo altre rilevazioni finirà per favorire il più esperto e affidabile sulle questioni di sicurezza nazionale, nonché il candidato che è stato capace di suggerire la strategia giusta per ribaltare la situazione a Baghdad (McCain).
A favore delle probabilità di una vittoria di Obama ci sono anche le sue straordinarie qualità politiche, la capacità di farsi rispettare tipica del politico navigato di Chicago e una buona dose di fortuna mista a coraggio (tanto che in diretta televisiva ha preso un pallone, tirato e fatto canestro da tre punti). Poi ci sono i soldi, che Obama raccoglie in quantità industriali: a oggi quasi 350 milioni di dollari, provenienti non soltanto dai piccoli contribuenti, come recita la propaganda obamiana, ma anche da grandi donatori e big corporation, come ha svelato ieri mattina in prima pagina il New York Times.

Le insidie del referendum sulla persona
A facilitare ulteriormente la partita per il senatore di Chicago ci pensa la stampa, entusiasta come non mai per un candidato così fenomenale ed elettrizzante. Eppure, nonostante questa mirabolante esposizione mediatica, i numeri di Obama non accennano a migliorare, McCain gli sta sempre addosso e in alcuni casi addirittura lo supera. La gara per la Casa Bianca, insomma, è apertissima. Obama è certamente messo meglio di McCain, perché è competitivo nei soliti stati in bilico, ma anche in tradizionali roccaforti repubblicane. McCain, invece, sembra avere chance di conquistare stati “democratici” soltanto in New Hampshire e Michigan. Il vento soffia alle spalle di Obama ma la gara è un referendum sulla sua persona, probabilmente l’unico modo capace di fargli perdere le elezioni. Questo spiega il mancato balzo dei suoi numeri che, peraltro, non hanno mai raggiunto il 50 per cento. Gli ultimi dati Zogby segnalano anche un imprevisto crollo del sostegno fra i giovani e le donne. C’è chi sostiene che il colore della sua pelle, sfruttato dai Clinton alle primarie, sia un fattore decisivo. Altri credono che a spaventare sia il suo passato troppo di sinistra, la sua giovane età, la disinvoltura con cui cambia posizione o l’istinto elitario che ogni tanto affiora, ma anche la presunzione che lo porta ad atteggiarsi già a capo di stato, se non a messia e salvatore del mondo. Secondo David Brooks del New York Times, Obama è difficile da etichettare, non fa parte pienamente di nessun club, è sempre alla ricerca di una propria identità, è un leader caldo e idealista, ma anche freddo e calcolatore. Non si sa bene chi sia, insomma. E malgrado il clima favorevole, sembra che per ora l’America abbia deciso di restare cauta a guardare.

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