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sabato 10 maggio 2008

Quante costituenti a sinistra ovvero come scaricare i gay.

Il tentativo di arrivare ad un'unità si sta snodando già da ora in diverse imprese di costituenti, da quella lanciata dai movimenti e da Ginsborg a Firenze fino a quella, annunciata almeno localmente, della Sinsitra democratica. Sarebbe opportuno che esse fin da adesso lavorassero insieme e non procedessero separatamente, ripartendo dai territori e dalle idee.
(Clelia Mori* - Aprileonline) Diversamente da quanto discusso al direttivo nazionale della Sinistra democratica, sul territorio, come per esempio in Emilia Romagna, è arrivata la notizia della volontà di realizzare una costituente nazionale di Sd come forma democratica collettiva, in accordo col nostro bellissimo progetto dell'unità della sinistra presentato il 5 maggio 2007 a Roma.

Il problema però a questo punto è il seguente: quante costituenti intendiamo avviare a sinistra prima di realizzare il sogno dell'unità? Per ora, tra quelle che ci interessano maggiormente, spicca il progetto di quella inaugurata a Firenze dai movimenti e da Ginsborg, l'intellettuale di sinistra più cortese e reale che abbia sentito. Oltre questa, se ne prospetta anche una del movimento di Mussi, da realizzare cercando il coinvolgimento dei socialisti, come propongono Salvi e Villone, oppure mettendo in discussione definizioni storiche, come prospetta invece Leoni. Lasciando a Rifondazione, ai socialisti e agli altri i loro tempi, che però non possono né decidere per tutti né bloccare un cammino urgente, come ha ricordato Ginsborg rivolgendosi a Ferrando, torniamo a noi e cioè alle due costituenti di cui si parlava prima, quella dei movimenti sui territori e quella nostra, di Sd.

La prima domanda che viene da porsi in proposito è perché tra questi due tentativi già da ora non sembra ci debba essere comunicazione. Si risponderà che c'è tempo, ma per me non è una motivazione soddisfacente. Le costituenti infatti dovrebbero camminare in collegamento tra loro, soprattutto perchè già due sono troppe.
E' autosufficienza o siamo ancora scottati dalle recenti esperienze passate, con momenti di futuro bruciati, per capire bene fino in fondo che fare? Forse siamo ancora saldamente avvinghiati, nei modi e nei pensieri, alla forma partito come fanno gli altri?
Per ora non so rispondere, anche se mi sembra che la forma partito sia inconsciamente la modalità che incontriamo più facilmente. Quello che resta evidente è che comunque le due costituenti della sinistra lasciano sospeso il futuro prossimo di un loro possibile incontro, dando così spazio al disegno della parzialità più che dell'unità; quindi tornando indietro rispetto all'unico accordo elettorale positivo che avevamo raggiunto chiamandoci La sinistra. Andavamo già allora, di fatto, un pò lontano da quella instancabile contrapposizione ideologica del ‘900 che ha visto in concorrenza socialismo e comunismo, foriera di continue divisioni, appassionanti più per gli uomini che per le donne, incapace attualmente di comunicare un messaggio politico alla gioventù che l'ha sentita a malapena discutere in famiglia. Quello che si chiede a Rifondazione o al Pdci lo dobbiamo chiedere anche ai socialisti e a noi stessi.

Nelle costituenti che ritengo interessanti, la parola d'ordine sembra essere quella di avere un occhio più attento ai territori, per ripartire da lì, più correttamente rispetto a quanto fatto nel 2007 e nel 2008. Mai i territori sono stati più frequentati, almeno idealmente, di quanto potrebbero esserlo ora dalla sinistra -Pd, Prc e socialisti compresi - indipendentemente da quello che essi potranno esprimere.
Ma quando parliamo di territori per la sinistra, di quale forma politica stiamo parlando?
Perché la speranza attuale è che non si ripeta quanto accaduto durante le recenti elezioni, dove hanno pesato maggiormente le scelte dei gruppi dirigenti regionali e nazionali rispetto a quelle dei locali.

Mi chiedo, però, se insieme ai territori si possa aggiungere -e lo solleciterei vivamente- anche la traduzione pratica di alcune idee su cui discutiamo da tempo, per non abbandonarci così ad un concetto datato di politica. Non mi pare che nei linguaggi usati abbiamo chiarito, a livello nazionale e locale, cosa voglia dire differenza di sesso, ambientalismo e laicità che, per inciso, non è certamente partire dai pur legittimi diritti dei gay. E non riesco proprio a capire se li vogliamo presentare davvero questi concetti per modificare la lettura delle forme della politica che pure vogliamo rinnovare. Visto che queste sono le uniche letture nuove del mondo apparse nella seconda metà del secolo scorso e vista la crisi generale in cui versa l'attuale pensiero unico e neutro ma in realtà solo maschile della politica, se le adottassimo avremmo in mano delle leve capaci di cambiare nel profondo anche la nostra politica. Allora il tema, purtroppo, è ancora se sapremo utilizzarle. Per ora infatti siamo stati, uomini e donne di Sd, in questo tentativo molto timidi.

So che nella direzione precedente si è svolta una discussione accesa sul nominare subito un nuovo coordinatore o un gruppo coordinante: ma quando parliamo di coordinare, di che cosa stiamo parlando? Coordinare cosa e perché? Abbiamo già provato a risolvere i nostri problemi con forme partito adottate così come erano dai luoghi da cui provenivamo, compresa l'idea di leader, ma ritengo che questa adozione non ci abbia fatto capire la differenza tra movimento o partito, sia nella costruzione del nostro pensiero che nella pratica.
Ci dicevamo infatti movimento, ma ci muovevamo come un partito neutro, a partire dall'organizzazione che è stata quanto di più classico conoscevamo.
Per questo lo sdegno provato per quanto scritto su La Repubblica del primo maggio, per quella coppia che sceglie l'aborto perché non riesce ad arrivare alla fine del mese con 1300 euro, a chi lo lasciamo? Nella analisi sulla violenza che l'organizzazione sociale esercita prima che sul lavoro e sulla famiglia, sulle donne e sulla loro vita, a chi lo affidiamo? Questo intreccio tra temi fondanti continuiamo a declinarlo coi modi neutri di prima e lo deleghiamo alla Lega, che lo risolve a modo suo, o per la sua parte a Casini? E quanto è accaduto al ragazzo di Verona ucciso per una sigaretta non ci fa ripensare alle matrici di quella violenza che le donne da tempo denunciano insieme a un gruppetto di uomini illuminati, quelli di Maschileplurale premiati oggi per il loro ragionare differente perfino alla Fiera del libro di Torino, ma non degnati di attenzione dai politici perfino di sinistra? Una violenza che forse non è semplicemente accantonabile come un tema del femminismo e dunque legittimamente ignorabile dalla politica vera. Se noi non sappiamo leggere con i nostri strumenti il mondo, altri lo faranno a modo loro coi loro cielodurismi o coi "fucili caldi" nella generale approvazione.

Chissà, quindi, se ai territori si potranno unire anche le idee nuove del ‘900 ed usarle come altro metro di misura per costruire una rete orizzontale che esprima anche dei principi generali più ampi e ricchi di quelli piuttosto verticali e tradizionali che siamo riusciti ad assumere fino ad ora?

La polarizzazione tra centro e territori implica sempre una scelta tra l'uno o l'altro, secondo le fortune del momento, che però perpetua lo squilibrio e l'incapacità se non esiste la sapienza della relazione tra le due forme e soprattutto tra le idee. Ma la relazione fa parte ancora di quella grande lezione che il femminismo dal '68 in poi ci ha dato e che gli uomini si ostinano, per problemi loro, a non voler cogliere. Come sempre. Anche quelli di sinistra e non solo quelli della destra che inneggiano, in questi giorni, a una loro differente maniera di scegliere le donne della loro politica, facendoci ritornare malignamente in mente le parole della Santanchè sul verticale e l'orizzontale femminile e la politica della destra.

Il nostro attuale legittimo desiderio di capire chi si è e da dove ripartire per incontrarsi sembra diventare il presupposto per nuove implicite chiusure interne, almeno se ci limitiamo a ripartire dai territori così come li abbiamo intesi e non abbiamo lussi da sprecare per intercettare idee e percorsi democratici nuovi che non siano solamente istituzionali come quelli che abbiamo conosciuto.

Si avanza una domanda su qual è la democrazia che vale: quella interna o quella esterna ai movimenti o ai partiti? E per cosa discutiamo quando parliamo di democrazia, per noi stessi/e, che sarebbe del tutto legittimo, oppure anche per gli altri/e, altrettanto legittimo? Però, se sono giuste entrambe, il problema allora è come metterli in relazione in modo che nessuno dei due utilizzi l'altro per fini particolari. Perché c'è nei fatti una scala di valori tra l'interno e l'esterno organizzati, penso al Prc che privilegia quella interna rispetto al bene comune generale delle forme organizzate, per numero e qualità dei bisogni. E allora, la necessità di democrazia generale dovrebbe uniformare tutto di sè, per garantire la sua applicazione come diritto universale, invece che adottare una democrazia dei due turni: prima nel partito poi nella sinistra. E parlare di democrazia vuol dire non solo strutture organizzative ma anche equità economica.

Ginsborg ha provato a non far prevalere i singoli partiti della sinistra sul bisogno generale di democrazia partecipata, ma l'impresa è più ardua che pensare di poterlo fare battendo sul tempo i vari partiti per influenzarne la linea. Nell'idea stessa di partito, per come l'abbiamo conosciuta fino ad oggi, è affermata una autosufficienza e una "neutrità" che isola ed allontana, a cui bisognerebbe porre rimedio se non vogliamo trovarci sempre a scegliere tra polarizzazioni estreme ed uguali, che bloccano grandi sogni e grandi bisogni.

*Comitato nazionale di Sd.

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