(Il Manifesto 28 settembre 2007) "Anticipiamo il testo della conferenza che il restauratore della tomba di Giulio II e del Mosé michelangiolesco terrà oggi al Campidoglio. Vi si racconta della controversia circa l'identità nascosta nella figura del Giudizio Universale, riprodotta qui accanto. Un sonetto del tempo vi vide il figlio del papa
Antonio Forcellino
Una delle leggende più tenaci che Giorgio Vasari ci ha tramandato su Michelangelo Buonarroti riguarda la figura di Minosse dipinta ai piedi del Giudizio Universale nella cappella Sistina, tra il 1534 e il 1541. Secondo Vasari Michelangelo aveva dato al suo Minosse le sembianze di Biagio da Cesena, il maestro di palazzo di papa Paolo III, che accompagnando il pontefice in una visita al pittore, aveva criticato i troppi nudi presenti nel dipinto. Benché l'episodio non venga menzionato nella biografia di Ascanio Condivi, scritta sotto il controllo diretto di Michelangelo dopo la prima edizione delle Vite di Vasari, la leggenda ha resistito fino ai giorni nostri, a testimonianza eclatante della terribilità di Michelangelo, così insofferente alle critiche da risolversi a immortalare in una animalesca caricatura uno dei personaggi più influenti della corte pontificia.
Ma nella Biblioteca Vaticana è conservato un documento, di fatto considerabile ancora inedito, dal quale si apprende che l'identità nascosta nella figura di Minosse nulla avrebbe a che vedere con Biagio da Cesena. Quel documento è un sonetto anonimo, rubricato tra le Pasquinate diffuse a Roma nel 1544, ad appena tre anni dalla rivelazione al pubblico del Giudizio Universale: una fonte di prima mano, dunque, per comprendere tanto il clima in cui Michelangelo dipinse il suo capolavoro quanto la ricezione cui andò incontro.
La voce degli intellettuali
Contrariamente a quanto voleva la leggenda che degradò la sua voce a quella di una fonte popolare, Pasquino si faceva tramite di uno spirito critico assai spietato e assai diffuso, che filtrava le parole di intellettuali attivi e bene informati sugli affari della corte pontificia. Generalmente prendeva di mira principi e cardinali, ma negli anni che ci interessano era soprattutto la famiglia papale a ritrovarsi investita dalle sue parole. Il sonetto dedicato alla pittura del Giudizio testimonia quale fosse, già allora, l'importanza pubblica dell'affresco e quale la notorietà raggiunta da Michelangelo sulla scena sociale romana. Biagio da Cesena vi compare identificato come uno dei morti dipinti sulla parte inferiore del Giudizio, mentre la figura di Minosse viene letta come una allegoria dei sodomiti violenti.
Almeno la metà dei sonetti ingiuriosi scritti contro la famiglia papale denunciano i suoi componenti come degli stupratori, e a Roma nessuno poteva avere dubbi, al tempo, sul fatto che anche il sonetto di Pasquino alludesse a un personaggio di primo piano della famiglia di Paolo III, peraltro oggetto in quegli stessi giorni di accuse fin troppo esplicite. Quel personaggio era Pierluigi Farnese, il figlio primogenito del papa, responsabile di avere stuprato il giovane vescovo di Fano, Cosimo Gheri, provocandone la morte. Un episodio che l'umanista fiorentino Benedetto Varchi, peraltro omosessuale e accusato di pedofilia, trovò particolarmente difficile raccontare; quando si risolse a farlo, queste sono le parole che scelse: «Pierluigi cominciò, palpando e stazzonando il vescovo, a voler fare i più disonesti atti che con femmine far si possono e perché il vescovo tutto che fosse di poca e debolissima complessione si di natura, e si per l'astinenza che faceva si difendeva gagliardamente». Nonostante gli sforzi della corte papale per nascondere il delitto, la verità venne a galla e lo stesso Pasquino non la smetteva di insistere sull'argomento, tornando a farsi portavoce della indignazione che si era diffusa a Roma a causa della prepotenza della famiglia papale. Le sue accuse, sintetizzate nei versi di un secondo sonetto che dice «Perché il patron di castro Pierluigi/ squarciò il quaderno al pastorel di Fano», traducono in termini diretti e brutali le circostanze che la storia «alta» lasciava filtrare con estrema cautela, anche se nessuno a Roma dubitava ormai che l'orribile Minosse dell'Inferno michelangiolesco fosse la trasfigurazione di un sodomita violento, e che Pasquino lavorasse a consegnare i misfatti del figlio del papa alla massima pubblicità. Del resto, neppure il filologo Marucci, il primo a inserire, nel 1983, la versione integrale del sonetto in una raccolta di Pasquinate, ebbe mai dubbi sulla identificazione tra Minosse e Pierluigi Farnese. Detto questo, bisogna anche ammettere che, con ogni probabilità, Michelangelo non ebbe mai l'intenzione di alludere con il suo Minosse né a Biagio da Cesena né al figlio del papa, fatto che non rappresentò un deterrente per il furbo Pasquino, il quale colse in quella associazione l'opportunità di rendere l'infamia dei Farnese altrettanto eterna che la fama del dipinto. Ma mentre elaborava i versi con cui avrebbe legato la pittura più famosa del mondo al ricordo del delitto più odioso del tempo, non sembra avesse fatto altrettanti conti, però, con la raffinata macchina censoria della Chiesa, capace di cancellare in poco tempo e per sempre ogni traccia di quello e altri delitti.
Erano mesi drammatici, mesi nei quali il papa stava giocando una partita definitiva per l'avvenire della Chiesa cattolica e, fatto egoisticamente più importante ancora, per la propria famiglia. Stava per aprirsi, infatti, a Trento il Concilio Universale, che proprio sotto la scaltra guida di Paolo III, e di suo nipote il cardinale Alessandro, avrebbe chiuso ogni possibile confronto con le istanze di rinnovamento teologico provenienti dal nord, con la conseguenza di separare definitivamente l'Italia dalle regioni protestanti. Sempre a quel tempo, e per la precisione nell'agosto del 1545, suscitando uno scandalo più universale ancora di quello provocato dal Concilio appena avviato, il papa riuscì a staccare dallo stato della Chiesa due città fiorenti come Parma e Piacenza, allo scopo di creare il ducato di Pierluigi, suo figlio. La propaganda cattolica si rivelò abilissima nell'invalidare le denunce contro i Farnese, e riuscì a metterle a tacere sostenendo che veicolavano niente altro se non le invenzioni dei protestanti.
Se Pasquino aveva tentato nel 1544 di legare il misfatto di Pierluigi Farnese al dipinto del Giudizio Universale, sei anni dopo, con la pubblicazione delle Vite, Vasari provvide a rescindere quel legame, proponendo con il suo aneddoto l'identificazione di Minosse con Biagio da Cesena, il segretario di palazzo. Si sarebbero dovuti attendere gli inizi del secolo scorso perché il sonetto riaffiorasse negli scritti del massimo storico del papato Ludwig Von Pastor, che lo menzionò senza peraltro pubblicarlo.
Dopo di lui, un altro studioso, Deolecio Redig de Campos, nel 1944 esaminò il sonetto e vi trovò conferma all'aneddoto raccontato da Vasari, ma nemmeno lui lo pubblicò ritenendolo troppo licenzioso. Nessuno degli studiosi venuti dopo, tra quelli che si occuparono del Giudizio Universale e della sua ricezione, sembra avessero preso visione del sonetto. Tutti davano per scontata l'interpretazione di de Campos, che nel 1964 tornò ancora a occuparsi del sonetto arrivando a proporlo come conferma della tesi di Giorgio Vasari: vi vide dunque ribadito ciò che il sonetto con chiara evidenza esclude. Anche in questa occasione, tuttavia, i versi non vennero pubblicati, fatto davvero molto singolare se si pensa che tutti i documenti diretti e indiretti che riguardano Michelangelo erano stati via via resi pubblici e alcuni di essi esibiscono ben altre crudezze e oscenità di quelle contenute nei versi di Pasquino.
Una questione controversa
Torno a dire che è del tutto legittimo avanzare dubbi sul fatto che Michelangelo, dipingendo il serpente mentre morde in un gesto di evidente castrazione i genitali di Minosse, intendesse realmente alludere al misfatto di Pierluigi Farnese. Così come si può legittimamente discutere sul fatto che Pasquino mirasse, con il suo riferimento al «quaderno squarciato», a rappresentare il misfatto di Pierluigi Farnese. Resta tuttavia inequivocabile che furono in molti a Roma, nel 1544, a ritenere fondate l'una e l'altra allusione, soprattutto perché qualche mese dopo la diffusione di quel sonetto, Pierluigi Farnese - diventato duca di Parma e Piacenza - espropriò Michelangelo dei proventi di una dogana sul Po, assegnatigli da Paolo III per remunerarlo della pittura del Giudizio, e lo gettò così in un grande sconforto. Anche qui, una domanda è quanto meno opportuna: fu soltanto l'avidità del primogenito del papa a suggerirgli l'ennesima prepotenza, o fu l'irritazione per la vicenda sollevata dal furbo Pasquino? Quel che è certo è che Michelangelo ignorò tanto le critiche quanto le ritorsioni e in quello stesso anno si dedicò a dipingere nella Cappella Paolina, a pochi metri dal Giudizio, i suoi angeli ostinatamente nudi."
COSI' DISSERO I VERSI DI PASQUINO
Questo è il sonetto conservato nella Biblioteca Vaticana e datato al 1544, che si inseriscenel dibattito scatenato a Roma dal disvelamento del Giudizio Universale. Letto all'interno della produzione satirica apparsa sotto il nome di Pasquino, il riferimento a Pierluigi Farnese nella figura del Minosse avvolto dal serpente è esplicito.
Giuditio di michel Agnol fiorentino sonetto
o voi che riprendete, l, fiorentino
considerate un poco la pittura
vedrette che sta ben ogni figura
Nella capella di Giesù Divino
Sta Santa chaterina a capo chino
Nuda si come fecce la natura
E 'Altri Santti stanno con misura
A, mostrar, i lor culi a don Paulino:
Il coglion di cesena come Pazzo
Sta con li muorti per suo mal governo
Tutt'ascosto in'un certo cantonazzo
Un altro sta ligato nel inferno
Con'una serpe che li morde il cazzo
Per peccato di rompere il quaderno:
per questo In sempiterno
Cristo condanna, i bugironi, Al foco
E, star con una serp'Al tristo loco.
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