(Il Messaggero) Si vive male nelle Filippine, come in tutti i posti in cui l'ansia di arricchimento e la lotta quotidiana per la sopravvivenza diventano gli unici punti di riferimento obbligati per l'individuo. Questo dice in sintesi il film del filippino Brillante Mendoza, Serbis (che significa Servizio), che per la prima volta dopo l'epoca gloriosa di Lino Brocka porta il cinema di Manila al concorso di Cannes. Per sviluppare in forma narrativa la sua sconsolata analisi sulla decadenza del mondo capitalista, Mendoza mette in scena gli splendori e le miserie della famiglia Pineda, guidata con pugno di ferro dalla matriarca Nanay Flor che gestisce un'impresa faticosa e incerta: un cinema porno chiamato "Family" nel sobborgo di Angeles. Nella cadente sala cinematografica, tutti i parenti di Nanay fanno qualcosa per arrotondare il bilancio familiare: chi alla cassa, chi in cabina di proiezione, chi assecondando i clienti che trovano modesta soddisfazione nelle vecchie pellicole proiettate sullo schermo.
Il degrado morale in cui ciascuno è inesorabilmente trascinato dalle durezze della vita, incide fatalmente anche sui rapporti umani: dispetti, tradimenti, gelosie, menzogne finiscono per essere il tessuto ordinario delle relazioni che legano tutti alla matriarca. Ma non si può continuare per sempre a far tacere la propria coscienza e a camminare sui sentimenti altrui. Serbis è un duro atto d'accusa contro la vita nei suburbi alla periferia della cosiddetta civiltà occidentale così come è intesa i n quasi tutti i paesi definiti «in via di sviluppo». Ma l'occhio del regista trova modo di sorridere e far sorridere (emblematico il doloroso foruncolo sul sedere che affligge il pittore di famiglia Alan), finché lo spettatore finisce, quasi inesorabilmente, a sentirsi parte della famiglia. Formatosi alla scuola del documentario e del cinema della realtà, Brillante Mendoza ama il pedinamento dei suoi personaggi da parte della cinepresa, non li lascia un istante e crea un'estetica forte, una sorta di marchio di fabbrica.
«E' proprio così - confessa il regista - un modo di fare cinema che corrisponde alla mia idea etica di come si deve rappresentare la realtà. Non si può essere oggettivi, non si possono lasciare fuori dalla porta le proprie convinzioni, anche se è importante salvaguardare la distanza tra chi filma e chi vive la vita. Queste stesse idee porto in un film-metafora come Serbis, nella convinzione che questa storia riesca a mostrare due volti collegati delle Filippine di oggi: quello per cui ogni senso etico può essere calpestato in nome della sopravvivenza e quello per cui il potere della famiglia finisce spesso per giustificare autentici delitti morali dell'uomo sull'uomo».
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