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mercoledì 19 marzo 2008

«Cover boy» un film del regista lancianese Carmine Amoroso. Ioan e Michele, amici precari.

(Giuliano Di Tanna - Il Centro) Ioan è romeno, Michele italiano. Due mondi che casualmente s’incontrano: l’esperienza di chi, figlio della rivoluzione post-comunista, è fuggito dal proprio Paese alla ricerca di un futuro migliore e quella di chi, precario, vive la crisi del lavoro occidentale.
Un refolo di realtà spira, da qualche tempo, nelle stanze del cinema italiano. La realtà del lavoro (della sua mancanza o precarietà) è al centro della storia di Ioan e Michele nel film «Cover boy», diretto dal regista abruzzese Carmine Amoroso, che sarà da venerdì nelle sale. Per Amoroso, 49 anni, lancianese, si tratta della seconda prova registica, a dodici anni dall’esordio con il film «Come mi vuoi» interpretato da Monica Bellucci e Vincent Cassel, all’epoca non ancora moglie e marito. Ma già nel ’92 aveva firmato il soggetto e la sceneggiatura di «Parenti serpenti», diretto da Mario Monicelli, ambientato a Lanciano e girato a Sulmona.
«Cover boy», di cui Amoroso ha scritto anche la sceneggiatura insieme a Filippo Ascione, ha collezionato una lunga serie di premi, fra cui quello di miglior film nel Festival del film politico di Barcellona. La pellicola è interpretata da Eduard Gabia (Ioan), Luca Lionello (Michele), Chiara Caselli, Francesco Dominedo, Gabriel Spahiou e Luciana Littizzetto. Amoroso parla del suo cinema e del suo (precario) lavoro di regista in questa intervista al Centro.
Amoroso, perché un film sui precari?
«La mia idea era quella di fare un film non sui precari ma sul rapporto fra un immigrato e un giovane italiano e siccome la precarietà è ormai quasi una forma naturale di essere dei giovani... Precario lo sono anch’io nell’universo del cinema italiano che è un mondo di privilegiati. Il film, in realtà, è la storia di un’amicizia».
In che modo i rapporti di classe e quelli inviduali sono influenzati, oggi in Italia, dalla precarietà del lavoro?
«La precarietà del lavoro oggi condiziona anche i sentimenti, i rapporti affettivi. Non avere i soldi per pagare affitto e bollette condiziona tutto, creando infelicità nelle persone. Un’infelicità che, però, non viene raccontata dal cinema italiano».
Perché?
«Il cinema italiano ormai è completamente scollato dalla realtà, racconta un mondo irreale. Il nostro cinema era grande quando i De Sica, i Rossellini, i Monicelli, i Risi parlavano della realtà. E quei maestri lo potevano fare perché conoscevano la realtà che raccontavano. Oggi, il cinema è un luogo del privilegio. Chi lo fa non conosce né la realtà né, quindi, il pubblico a cui dice di rivolgersi e che, perciò, non va più al cinema. Mi dànno un enorme fastidio i personaggi che dominano le storie del nostro cinema: sono tutti architetti, ingegneri, professionisti. Mai uno che faccia un lavoro normale».
«Cover boy» è anche un film sull’amicizia virile contrapposta alle donne come la padrona di casa della Littizzetto e la fotografa della Caselli?
«E’ vero, racconto la storia di un’amicizia fra due uomini, ma questo non significa che io abbia una visione anti-femminile. A me premeva raccontare la storia di questi due giovani. Il ragazzo italiano lavora come pulitore alla stazione Termini con contratti che scadono e, alla fine, si ritrova sempre disoccupato con l’ansia di vedersi rinnovare il contratto. Lui e il ragazzo romeno sono persone normali che vivono la loro quotidianità. Io non parto da un tema, come potrebbe essere quello del precariato, ma dalla vita reale, dalla concretezza».
Ha avuto dei modelli cinematografici o letterari per questo film?
«Non specificamente per questo film. Ovviamente ho dei modelli. Marco Ferreri e Pier Paolo Pasolini sono i registi italiani che amo di più. Poi c’è il cinema americano, che è quello che preferisco attualmente per la sua capacità di creare linguaggio e di descrivere un mondo che si conosce. Penso soprattutto a registi come Gus Van Sant e Larry Clark. Nel cinema italiano, invece, c’è l’ipocrisia di descrivere una realtà che non si conosce. Penso, per esempio, alle sorelle Comencini, che io chiamo le sorelle Carlucci del cinema italiano».
Lei si è laureato con una tesi sulla religiosità nel cinema di Pasolini: che cosa direbbe Pasolini di questo nuovo proletariato occidentale nato dalla flessibilità del lavoro?
«Pasolini, oggi, si occuperebbe proprio del mondo marginale e degli extracomunitari. I ragazzi pasoliniani degli anni ’50- ’60 e ’70, oggi a Roma, sono i giovani extracomunitari e, in particolare, quelli romeni».
Dal suo primo film «Come mi vuoi», girato a Lanciano con Monica Bellucci e Vincent Cassel, a questo «Cover boy» sono passati dodici anni: perché così tanto tempo?
«Il sistema cinematografico del nostro Paese è impantanato in un sistema basato sui privilegi. I film, i progetti, le persone sempre più spesso sono scelti, non in base ai meriti professionali, ma in base alle conoscenze, alle parentele, ai maneggi, alle spartizioni politiche. Tutto questo rende difficile realizzare qualcosa di nuovo e di diverso. O sei all’interno di questo sistema - che è uguale a quello televisivo - oppure non ti fanno lavorare, ti bocciano i progetti. Il progetto di “Cover boy” è stato fermato due volte dal ministero: una via crucis».
Quanto è stato importante per lei lavorare con Monicelli per la sceneggiatura del film «Parenti serpenti»?
«Monicelli mi ha insegnato il cinema. Mi ha confermato nella mia idea di un cinema normale. Lui non ha mai pensato di fare qualcosa di artistico, si considera un artigiano che fa il suo mestiere. Mi ha insegnato la semplicità, quel tipo di cinema che i maestri italiani di un tempo sapevano fare, che facevano bene e con felicità».
Come è presente l’Abruzzo nelle storie che lei scrive e dirige?
«“Parenti serpenti” era ambientato a Lanciano, anche se l’hanno girato a Sulmona perché Monicelli considerava Sulmona una città più cinematografica di Lanciano. “Come mi vuoi” è ambientato e girato a Lanciano e sul litorale. In “Cover boy” il protagonista italiano, a un certo punto, dice di essere di Lanciano. Io sono orgogliosissimo delle mie radici abruzzesi e lancianesi. Vengo da una terra e da una cultura, quella contadina, che rivendico per la sua eticità. Mi dispiace solo che la mia comunità non sostenga a sufficienza gli artisti abruzzesi».
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