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mercoledì 19 marzo 2008

Il re del gossip italiano. Roberto D'Agostino: "Sono gay dalla cintura in su".

«Il pettegolezzo è l’unica forma di giornalismo. Briatore è il gigante della comunicazione cazzona».

(Claudio Sabelli Fioretti - La Stampa) Nato a Roma nel ‘48, Roberto D’Agostino ha debuttato a 16 anni come disc-jockey nella trasmissione radiofonica «Bandiera gialla» con Arbore e Boncompagni. Giornalista pubblicista, esperto di look a «Quelli della notte», ha aperto su Internet «Dagospia», uno dei siti più seguiti per pettegolezzi e scoop sul mondo economico e politico italiano

Per alcuni è un pettegolo, un seminatore di zizzania, un superficiale. Per altri è un giornalista libero, informato, coraggioso. La maggior parte dei computer delle aziende e dei giornali italiani hanno il suo sito, Dagospia, perennemente aperto sui loro monitor. Lui, Roberto D’Agostino, incassa 300 mila visite al giorno e anche tante querele. «Soprattutto da altri giornalisti», si lamenta.

Da chi per esempio?
«Dal Corriere della Sera. Ostellino, Folli, Ermini...»

Lo stesso Romiti...
«Con lui ho risolto con una bella cena. Gli altri sono stati tremendi. Io mi aspettavo querele da banchieri, da politici, non da colleghi. E poi che cifre! Condannato a pagare 160 mila euro a Ostellino, per aver scritto che voleva tornare a dirigere il Corriere. Follia».

La rubrica di Dagospia più famosa è Cafonal, la foto-cronaca di Umberto Pizzi delle cene dei salotti romani...
«Il cafonalesimo è la cafoneria trasformata nel massimo rito sociale della comunicazione. Cafonal è l’esibizionismo pacchiano che travolge tutti. Tutti vogliono comunicare agli altri chi vorrebbero essere, tentando di far dimenticare chi sono veramente».

Il campione del cafonal?
«Il cafonal per eccellenza è Berlusconi, l’irresistibile parvenu brianzolo. Felice di aver messo un piedino nel salotto buono di Mediobanca. Quando Mediobanca non conta più niente, destinata ad essere inglobata dalle Generali».

Altro cafonal?
«Anna Finocchiaro. Atteggiamento da infermiera sadica (“Vieni qui, che ti infilo la supposta”). E poi va alla cene dell’Angiolillo con un groviglio di peli di un branco di lupacchiotti spiaccicati spacciati per un cappotto. E Veltroni. Il buonismo è cafonalissimo ipocrita».

Cafonal economico? Ricucci?
«Ma no, Ricucci non è cafonal, è ruspante».

Dagospia è un affare?
«Dagospia è stata la mia terapia. Superati i cinquant’anni, avevo bisogno di riprendermi dalle vicissitudini che avevo avuto con la carta stampata dove facevo pagine e pagine di vita pettegola su l’Espresso. Una rubrica chiamata Spia».

Quali erano le tue fonti?
«Feste tutte le notti. Anche tre a volta. Stare a casa a vedere la tv mi faceva passare la voglia di fare sesso. Alle cene conoscevo tutti e tutti mi raccontavano delle storie, anche i giornalisti. Mi dicevano: alla Rai è successo questo. Il giorno dopo sui giornali non c’era scritto niente. Non capivo per quale motivo loro non le scrivessero. E allora le scrivevo io. Poi ho commesso degli errori. Non ho capito che se scrivevo certe cose sull’avvocato Agnelli prima o poi pagavo».

Che cosa hai scritto?
«Una cazzata. Scrissi che ad Auckland Bertelli aveva detto che “l’Avvocato porta sfiga". Se avessi scritto "gufare" non sarebbe successo niente. Ma scrissi "porta sfiga". La parola sfiga è stata micidiale... Fine della mia rubrica sull’Espresso».

Eri a spasso.
«Barbara Palombelli mi consigliò: apri un sito, ti sfoghi e scrivi quello che ti pare».

Tanto gossip anche su Dagospia...
«All’inizio. Ma poi ho scoperto che l’economia e la finanza avevano preso il sopravvento sulla politica. Una settimana dopo aver lanciato il sito mi arrivò la notizia che Tatò, amministratore delegato dell'Enel, stava studiando lo sposalizio fra telefonini e televisione. Nel frattempo aveva fatto in modo che sua moglie Sonia Raule venisse nominata direttore dei programmi di Tele Montecarlo. Io all’epoca non ero così smaliziato da capire che dando la notizia avrei bruciato l'operazione. Titolai "Sonia e lumière" e successe un casino. Così capii che non erano le scopatine degli attori ad interessare i miei lettori, ma l’insieme gossip-potere- economia».

I tuoi scoop?
«Fui sbeffeggiato quando annunciai con due giorni di anticipo la nomina di Folli a direttore del Corriere. Nessuno ci credeva. Mi dicevano: “Così perdi credibilità”».

Chi sono i tuoi informatori?
«Il potere invisibile. Mi contattano persone insospettabili, quelle che muovono davvero il teatrino dei burattini».

Non hai mai il sospetto di essere strumentalizzato?
«Sempre».

Cossiga è un tuo informatore?
«E’ di più. E’ la guida spirituale di Dagospia. E’ stato il primo a darmi fiducia. All’epoca della guerra da parte di Profumo e Geronzi a Maranghi per la conquista di Mediobanca, Cossiga scelse Dagospia come veicolo per picconare a difesa di Maranghi».

Oltre Cossiga anche altri... Calabresi... Mieli... Rossella...
«No. La verità è che tutti collaborano a Dagospia, in un modo o nell’altro».

La tua vita.
«Padre saldatore, madre bustaia. Sono nato in via dei Volsci, quella degli autonomi romani. Ho vissuto in quel quartiere fino a trentasette anni. Sono andato a lavorare a 18 anni, come ragioniere, alla Breda. Mia madre faceva i reggiseni su misura all’amante di un leader socialdemocratico. Ottenne una raccomandazione per la Cassa di Risparmio di Roma. Era il ’68. Avevo 20 anni».

Hai fatto il ’68...
«L’anno cruciale per me è stato il ’64, Bandiera Gialla, Arbore, Boncompagni, Zaccagnini. Andavamo a via Asiago, nella sede Rai. Stavamo seduti lì, in studio, accanto a Lucio Battisti, Loredana Bertè, Renato Zero... E la sera andavamo al Piper. Una volta eravamo su una 500 con Renato Zero e avemmo un incidente. Finimmo dentro un negozio di pompe funebri in via Sicilia. Ci portarono al Policlinico. Zero, che allora non era ancora Zero, ma era già tutto truccato, capelli lunghissimi, pantacollant, lo ricoverarono direttamente al reparto femminile. La nostra passione era la letteratura anglo-americana. Ricordo il nostro incontro con Fernanda Pivano. Per noi era un mito. Ci presentammo io e Paolo Zaccagnini all’Hassler vestiti da Kerouac e Ginsberg de’ noantri, gilet da mercatino dell’usato, jeans stracciati, capelli lunghissimi, proprio on the road. Entrammo ma non vedemmo nessuna signora beatnik. Dissi a Paolo: “Ci ha dato la buca”. Poi il portiere: “La signora Pivano è quella signora bionda vicino al pianoforte”. Rimanemmo a bocca aperta. Caschetto, tailleur, filo di perle, tacchetto basso. Era lei».

Dagospia ti ha procurato un sacco di nemici. Celli…
«La Rai per Dagospia è sempre una pacchia. Se ogni giorno faccio un articolo sulla Rai ho assicurati ventimila navigatori in più. Celli era il direttore generale della Rai. Litigare era inevitabile. Oggi siamo amici».

Maria Angiolillo...
«Ce l’ha con me perché scopro quando lei fa le sue cene di potere. Ma io le voglio bene. Per me è un mito di Roma, come Romolo e Remo. Quando la cito scrivo “Mariasaura Angiolillo, fondata nel 1918”. E scrivo che accende il forno con la pietra focaia. Da piccola aveva come animali domestici due pterodattili».

Afef...
«Le sciure milanesi ce l’avevano con lei perché si era pappato Tronchetti Provera. Facevano a gara a mandarmi notizie. Linciaggio di carattere razzista con sottofondo di invidia. Afef giustamente si incazzò. Mi sono pentito di aver esagerato. Le ho chiesto scusa».

Vittorio Sgarbi?
«Su quello schiaffo ho campato per anni. Mi fermavano per strada e mi dicevano: “In quella mano c’ero anche io”».

Perché lo schiaffo?
«Eravamo all’Istruttoria di Ferrara. Sgarbi mi stava travolgendo con la sua parlantina. Ero in un angolo. Allora incalzai: “Professore de che? Sei un asino. Per tre volte hai fatto l’esame per la cattedra e per tre volte sei stato bocciato”».

E lui?
«Cominciò a urlare. Io gli ripetevo: “Asino. Bocciato tre volte. Asino. Bocciato tre volte”. Artificio retorico. Ripetere, ripetere, ripetere. Ogni volta aumentavo il volume. Lui mi tirò in faccia la minerale. Io provai a spaccargli la bottiglia in testa, lui la bloccò, io lasciai e con la mano libera partì lo schiaffone».

Avete fatto pace?
«Mi offrirono un sacco di soldi per farlo in tv. Rifiutai sempre. Lui avrebbe voluto. Anche se continuava a considerarmi uno stronzo. E anche io».

Raoul Bova?
«E’ un ingrato. Ho girato solo un film nella mia vita, un film sciagurato e trascendente, “Mutande pazze”. E ho fatto debuttare Raoul Bova sul grande schermo. Una volta diventato famoso poteva anche, en passant, citare il fatto, no? Invece mai. Lo so, è una piccineria da parte mia. Mai una volta che avesse detto: “Ringrazio D’Agostino che mi ha scelto nel mucchio…”».

Stefano Folli...
«Aveva dato la sua prima intervista da direttore del Corriere ad un mensile della destra post-fascista, e aveva parlato bene di Fini».

Tu hai scritto: “Camerata Folli”.
«Gli ho telefonato per chiedergli scusa. Mi ha sbattuto la cornetta in faccia».

Quanto tempo hai lavorato in banca?
«Dodici anni. Ma intanto avevo cominciato a scrivere di musica. Ho fatto anche il disc-jockey al Titan, che era la prima discoteca rock per compagni sbandati (’77). Ho lavorato all’estate romana di Nicolini. Ho scritto per “Moda”, il giornale di Vittorio Corona, dove mi inventai l’edonismo reaganiano, il look e quelle cosette lì».

Michele Serra disse: «D’Agostino è tutto quello che io non sono, lui ama il look io la bellezza».
«Infatti, il famigerato look ha stravinto anche a sinistra (il marinaretto D’Alema, il cachemirizzato Bertinotti, la chanellizzata Pollastrini). La bellezza serve ma non apparecchia la comunicazione. In fondo, cosa diceva Longanesi? “Il superficiale è l’unico essenziale”».

Per chi voti?
«Da Bertinotti ai radicali, da D’Alema a Rutelli, ho votato tutti… ma sempre a sinistra.»

Hai dato soprannomi a mezza Italia.
«Pierfurby Casini, Daniela Santadeché, WalterEgo Veltroni, Marpionne».

Fosti tu a definire Prodi «la mortadella dal volto umano».
«E Cossiga il Gattosardo. De Benedetti è la Tigre di Compracem. Brass il Cinecologo dell’erotismo. Armani, Trenta e loden. Valentino è il Sarto Cesareo. Funari, la Forza dell’intestino. E Barbara, la Palomba».

Non parli mai male della Palombelli.
«Sono affetto da palombellismo. E’ la mia ideologia politica, il cinismo romano (perché escludere, quando si può aggiungere?), l’andreottismo letta-letta (tra destra e sinistra, meglio il centro-tavola), la convinzione che qualsiasi problema si può risolvere attovagliati al Bolognese. Quello che oggi è tragedia, domani è farsa. Meglio evitare prese di posizione all’ultimo sangue».

Di chi altri non parli male?
«Di Cossiga, Boncompagni, Arbore. Renzo può anche stuprare la Angiolillo sugli scalini di Trinità dei Monti. Io scrivo che l’Angiolillo l’ha molestato oltre misura».

Quali sono i salotti migliori secondo te?
«Quelli che hanno il giusto mix. Il parrucchiere frocio, lo scrittore moscio, la poetessa lesbica, il compagno tradito dalla Storia, il prete mondano, l’imprenditore gagà. Deve esserci il poeta scalzo Valentino Zeichen ma anche Paolo Villaggio in pantofole, Lisa Vanzina e l’ultima zoccola della tv. Un salotto senza una bombastica sgallettata non è un salotto. Occorre farsi anche due risate».

Qual è il giornalista che ti piace di più?
«Filippo Ceccarelli. Scrive benissimo risparmiandoci il suo ego».

Quello che non ti piace?
«Mi irritano quelli che pur avendo talento, lo sprecano».

Nomi.
«Francesco Merlo. E’ bravissimo. Ma perché spreca tutto quello spazio con i ricami? Che cos’è, il barocco siciliano?»

C’è un pettegolezzo che non hai scritto?
«L’ho scritto senza scriverlo. Quello di un esponente di primo piano di Forza Italia buttato fuori casa dalla moglie per aver messo incinta la sua amante. Ma siamo sotto elezioni. Ed è riuscito a farsi dare una proroga: farà fagotto il 15 aprile, ad urne aperte».

La televisione che non ti piace?
«Fabio Fazio. E’ un trottolino amoroso. Veltroni in confronto è Attila. Marzullo è Jack lo Squartatore».

Gioco della torre. Luca Sofri o Adriano Sofri?
«Li butto tutti e due. Adriano Sofri ci racconterà mai quello che sa dell’assassinio di Calabresi?»

Afef o Sonia Raule?
«Afef è il massimo della simpatia maschile, tendenza finocchiona».

Santanchè o Mussolini?»
«Quando la duciona butta la bocca avanti è la commedia all’italiana che ti mangia»

Cossiga o Andreotti?
«Andreotti è dentro di noi. Ognuno di noi ha il suo pezzo di Andreotti».

Travaglio o Santoro?
«Travaglio è come il dottor House: elenca i misfatti delle persone con la freddezza di una Tac».

Briatore o Della Valle?
«Forza Briatore… Un gigante della comunicazione cazzona, quindi perfetta per i nostri tempi».

Grasso o Dipollina?
«Salvo Beniamino Placido. Grandissimo critico: ha applicato la cultura della contaminazione interdisciplinare alla tv».

Il pettegolezzo è giornalismo?
«E’ l’unica forma di giornalismo. E di letteratura. Arbasino è stato un grande scrittore di gossip. “Fratelli d’Italia” è un libro di pettegolezzi. Come la ”Ricerca del tempo perduto”…».

Il giornale più pettegolo in questo momento?
«Tutta la stampa è piena di robaccia, che per me è roba buona. Io leggo e taglio di tutto. E pubblico. Forzando un po’ il titolo. I quotidiani ammorbidiscono i titoli. Io li ravvivo. Prendi il Sole 24 Ore. Nemmeno quando cade il governo titolano “Prodi è caduto”. Sono formidabili: riescono a fare titoli senza la minima asperità. Sono degli arrotondatori di titoli».

Le cose peggiori che hanno detto su di te?
«Quando facevo il lookologo a “Quelli della notte“ dicevano tutti che ero gay».

Sei gay?
«No. Ma sono stato sempre di cultura gay. Sono frocissimo dalla cintura in su. Sono finocchio come è finocchia Afef, come è finocchia Irene Ghergo. La cultura etero è noiosissima».

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