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sabato 22 settembre 2007

Cortigiane e amanti: storia segreta dell'ipocrisia italiana

(Gian Antonio Stella Il Corriere della Sera) «Isabella mia chara, chara, chara, chara, te baso con tucta l'anima mia sin de qua et prego che ti ricordi di me come merita il grandissimo amore che ti porto». Il cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena doveva proprio aver perso la testa, per quella damigella di corte di Isabella d'Este che portava lo stesso nome della duchessa e aveva conosciuto durante un viaggio a Mantova. E certo non si faceva problemi a esprimere quei sentimenti con una passione (teoricamente) proibitissima a un uomo di Chiesa. Tanta indifferenza ai giudizi altrui un buon motivo l'aveva. In quel 1515 in cui scriveva alla sua bella, la corte pontificia di Leone X, alla quale il prelato apparteneva, non si scandalizzava certo per così poco. Anzi. Lo racconta un libro appena uscito per la Newton Compton. Si intitola Cardinali e cortigiane ed è stato scritto da Claudio Rendina, che alla storia di Roma, dei papi, dei soldati di ventura, degli ordini cavallereschi ha dedicato diversi volumi. Tutti caratterizzati da continui rimandi a una ricca bibliografia (i libri e i documenti citati in questa occasione sono 168), ma insieme da una scrittura volutamente leggera, apparentemente «facile» e da una esuberante raccolta di aneddoti e curiosità che forse faranno alzare con disappunto il sopracciglio a qualche barone dell'accademia, ma accompagnano attraverso certi percorsi nel nostro passato anche persone che altrimenti non ci si avventurerebbero mai. Dettagli irresistibili. Come la descrizione, presa dallo «Zoppino», pseudonimo di un sacerdote e scrittore spagnolo nonché «protettore di cortigiane », Francisco Delicado, delle tecniche usate per sedurre i suoi spasimanti da una certa Lucrezia Porzia. La quale non solo faceva pesare i suoi favori concedendosi solo dopo mille preghiere e regali e vestendo la parte della verginella sdegnosa (al punto che la chiamavano «Matrema non vole», soprannome ripreso anche dall'Aretino), ma si dava arie da intellettuale facendosi « beffe d'ogni uno che non favella a la usanza; e dice che si ha da dire balcone e non finestra, porta e non uscio, tosto e non vaccio, viso e non faccia, cuore e non core, miete e non mete, percuote e non picchia, ciancia e non burla ». Ne esce un libro curioso. Che mette insieme, incrociandole continuamente, un sacco di storie di cardinali (e papi) e di donne di facili costumi. Le quali a volte erano così costose che talora, scrisse Montaigne, «volevano essere pagate anche per la semplice conversazione» e riuscivano a diventare immensamente ricche, come quella Giulia, detta La Lombarda, che riposa accanto all'altare maggiore della chiesa veneziana di San Francesco della Vigna e davanti alla cui tomba qualcuno prega invocando una grazia senza sapere che la «sontuosa meretize» morta nel 1542 aveva potuto comprare a Brentasecca, vicino a Padova, una bella villa con campagna con quello che aveva ricavato vendendo gli ori e i gioielli avuti in dono dalla danarosa clientela. UN ACCOSTAMENTO CHE NON DEVE STUPIRE -SESSO E POTERE, DA MESSALINA A OGGI - E a leggere il libro di Claudio Rendina, che accosta cortigiane e cardinali come sintesi del rapporto che esiste da sempre tra sesso e potere, da Messalina al deputato dell'Udc Cosimo Mele, protagonista del recente festino a luci rosse all'Hotel Flora con due ragazze a pagamento e un po' di cocaina, furono proprio tanti, a seguire l'ipocrita raccomandazione. Al punto che nella chiesa capitolina di Sant'Agostino, come scriveva Georgina Masson nel suo Cortigiane italiane del Rinascimento, «tutto lo spazio compreso tra l'altare e i posti nei quali sedevano i cardinali era occupato da cortigiane » che in una città come Roma «erano assidue frequentatrici di chiese, dato che era anche questa un'eccellente forma di pubblicità, forse la migliore». Ed ecco la storia di Pietro Riario, figlio adottivo di Papa Sisto IV, che dava nel suo palazzo a Santi Apostoli indimenticabili banchetti di sei ore con 42 portate e aveva come amante una ballerina di nome Tiresia, che appariva alle feste su un cocchio tirato da cigni e che il cardinale, nota il genovese Battista Fregoso, manteneva «con una prodigalità tale che si comprende dall'uso di scarpette ricoperte di perle». Ecco Madama Lucrezia, una bella figliola di Torre del Greco che, dopo esser stata l'amante del re di Napoli Alfonso d'Aragona, reso ben presto, come scrisse il futuro papa Enea Piccolomini, «servo di una femminetta», andò a cercar fortuna a Roma. E Vannozza Cattanei, che diede tre figli (Cesare, Juan e Lucrezia) all'amante Rodrigo Borgia, futuro Alessandro VI, il quale le offriva copertura procurandole uno dietro l'altro tre mariti di comodo, via via defunti. E giù giù fino a Beatrice Ferrarese, immortalata da Raffaello, e alla celeberrima Veronica Franco, che a Venezia ospitò nel suo talamo Enrico III che andava a Parigi a farsi incoronare e gli regalò una poesia da lei composta e un ritratto che le aveva fatto il Tintoretto. Fino alla Divina Imperia, cortigiana di straordinario spessore intellettuale, a Clementina Verdesi che Giuseppe Gioachino Belli ribattezzò «puttana santissima», alle nipoti del cardinale Mazzarino che i maligni chiamavano les mazarinettes, al vescovo col «vizietto» di Frascati Enrico Stuart di York, alla contessa di Castiglione. Indimenticabile, tra l'altro, la descrizione, ripresa dalle memorie di Giovanni Burcardo, cancelliere del Papa e noto come cardinale d'Argentina, del banchetto organizzato dal duca Valentino «al quale prendono parte cinquanta meretrici oneste, quelle dette cortigiane. Finito di cenare ecco le cortigiane danzare con i servitori e altre persone che si trovano lì; da principio vestite, poi nude. Sempre dopo cena vengono posati in terra i candelabri con le candele accese che illuminano la mensa; dove vengono sparse delle castagne che le meretrici, nude, raccolgono passando fra i candelabri sulle mani o sui piedi. Tutto alla presenza e sotto lo sguardo del Papa, del duca e di sua sorella Lucrezia... ». È proprio vero: se la Chiesa è sopravvissuta, deve avere sul serio qualcosa di grande..." Questo accostamento tra le «squillo» e gli uomini di Chiesa dei tempi meno virtuosi, del resto, non deve stupire. Basta rileggere Montesquieu a proposito della città serenissima: «Mai in nessun luogo si sono visti tanti devoti e tanta poca devozione come in Italia. Bisogna tuttavia ammettere che i veneziani e le veneziane hanno una devozione che riesce a stupire: un uomo ha un bel mantenere una puttana, non mancherà certo la sua messa per nessuna cosa al mondo». Proprio un proverbio veneziano del Settecento riassumeva così la dolce vita suggerita ai nobiluomini: «La matina una messetta, dopo pranzo una bassetta, dopo cena una donnetta». Messa, bisca, amante.

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