Le affinità tra il leader dei Queen e il grande regista. Dal gusto teatrale alla grandiosità.
(Alberto Bevilacqua - Il Corriere della Sera) Queste Parole e pensieri (a cura di Greg Brooks e Simon Lupton, Mondadori) valgono per chi già conosce Freddie Mercury come star, con i vezzi e insieme la professionalità da palcoscenico e teatro che mi ricordano aspetti della personalità di Luchino Visconti (ho avuto occasione di dirlo al piccolo genio dei Queen, senza sorprenderlo, durante un incontro): cos'era il mondo, anche per Luchino, se non il «dopo » di una festa sontuosa che poteva aver avuto, come sfondo, i palchi della Scala, tappezzati in damasco scarlatto di Siria, oppure i saloni dove, alla fine del ballo nel Gattopardo, si vedono dolci sventrati sulle tavole, il pavimento cosparso di lustrini? E Luchino ricordava: «Quando eravamo bambini, dopo una festa, andavamo sempre a vedere cosa era rimasto a terra».
Era anche di Mercury questo sentimento, un po' stralunato, di carnevale dissolto, che vive nella finzione scenica sia della felicità che del dramma. E Freddy avrebbe potuto affermare, come Luchino dopo La caduta degli dei: «Ho voluto incarnare un Macbeth moderno. Ho scelto situazioni estreme, ho voluto segnare i confini oltre i quali Sodoma e Gomorra vengono sepolte sotto la cenere». Con la voluttà di perire dopo, appunto, la festa sensoriale della vita, comunque essa sia stata festa.
Una delle prime confessioni di Mercury, infatti, ha un timbro viscontiano: «Avevo pensato da subito al nome Queen. Aveva un che di regale e suonava splendido. Era grandioso e alludeva a un mucchio di cose, al teatro per esempio». Nel 1984, Freddie conobbe Jim Hutton, rimasero insieme come coppia fino alla morte di Freddie, nel novembre del 1991. Non è azzardato nemmeno questo secondo raffronto. Nel '71,Visconti passa due mesi in Grecia con Helmut Berger, che ricorda: «Mi ha fatto vedere la Grecia per farmi capire l'omosessualità. All'epoca, avevo paura di me stesso, di me che andavo a letto con un uomo. Mi ha educato: scoprire la Grecia è una cosa meravigliosa, quando si è innamorati».
Omosessualità, anche per Mercury, che va capita, valutando l'intervento della ragione, un destino storico, dopo la libertà con cui si è vissuta la passione fisica. Ecco un'altra confessione di Freddie, che stupirà, diradando certe tenebrosità equivoche, false: «Sì, sono gay. Sono gay come un narciso. Ma non sono mai riuscito a innamorarmi di un uomo come lo sono stato di una ragazza. Non vado in giro per circondarmi di omosessuali. Tra i miei amici ci sono molti gay e molte ragazze, e anche molti uomini veri. Frequento un mondo teatrale e ciascuno può interpretare come vuole questa cosa. Ho avuto una ragazza, Mary, con la quale ho convissuto per cinque anni».
A proposito di Mary, bisogna tornare alla viscontiana metafora greca. Nell'omosessualità di Mercury ci sono, accoppiati, la schiera degli azzurri delfini da gineceo e la forza del Minotauro. La temibile stabilità della seconda segue ai fantasiosi «salti felici» nel mare dei delfini. Con Mary, Mercury costruisce un legame che non esita a definire «immenso»; tutti i suoi amanti continuano a chiedergli perché non possono sostituire Mary, e lui risponde:
« È semplicemente impossibile ». Precisa: «Mary è la mia moglie di fatto. Contenti di come stanno insieme, e non importa cosa pensano gli altri». Un altro aspetto da chiarire. Le voci del mondo, più amate da Freddie, sono quelle che richiamano il timbro particolare di sua madre, Jer Bulsara, che precisa: «Il mio ragazzo è Farrokh Bulsara, nato a Zanzibar. Naturalmente, il mondo l'ha conosciuto più come Freddie Mercury... Mi manca enormemente, ma grazie alla sua musica non è mai lontano da me».
Già, la musica. È chiaro che Parole e pensieri valgono per chi conosce le «Canzoni dei Queen»: da A Night at the Opera, una delle composizioni migliori a News of the world, la canzone più egoistica e presuntuosa, a Under Pressure (in collaborazione con David Bowie). Tuttavia, Mercury ha il suo idolo: «Non proverei mai a mettermi al livello di John Lennon, perché dal mio punto di vista è stato il più grande di sempre. Lennon era unico, senza uguali, punto e basta». Quando l'idolo muore, Freddie scrive la canzone Life Is Real, che definisce un piccolo tributo, un piccolo dono. Ma in quelle note si insinua una nuova, forte rassegnazione personale e spavalda: «Sicuramente non aspiro a vivere fino a settant'anni. Sarebbe così noioso ... Sarò morto e sepolto ben prima di quell'età». Dichiarazione in limine per una storia esistenziale in cui la morte è considerata la potenza più immorale, ma anche seducente, se preceduta da anni di festa.
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