(Chiara Rancati) Nel 2003 il presidente Bush aveva elogiato il suo coraggio, che aveva “contribuito in modo diretto alla buona riuscita di importanti missioni in condizioni di estremo pericolo”. Eppure solo un anno dopo il maggiore dell’Us Air Force Margaret Witt era stata sospesa dal servizio senza paga in attesa di giudizio e, infine, congedata con onore. Motivo: fonti anonime avevano rivelato ai suoi superiori che era da anni impegnata in una relazione lesbica con una civile. Un caso come molti, nell’esercito Usa, che però ha avuto mercoledì un finale inaspettato:
Politica del silenzio – Alla base del contendere c’è la don’t ask, don’t tell policy, ovvero “politica del non dire e non chiedere”, dell’esercito Usa, che proibisce alle persone omosessuali o bisessuali di rivelare apertamente il proprio orientamento, e ai loro comandanti di indagare in proposito. Introdotta nel 1993 dall’amministrazione Clinton, la procedura era una sorta di compromesso tra l’apertura all’arruolamento dei gay promessa in campagna elettorale e il rigido divieto in vigore dai primi anni ’40. “L’orientamento sessuale non sarà una barriera al servizio militare - recitano le linee guida del Pentagono per la sua applicazione – a meno che non si manifesti in condotte omosessuali, ovvero atti omosessuali, dichiarazioni esplicite di omosessualità o bisessualità, o matrimoni o fidanzamento con qualcuno dello stesso genere”. In parole povere, i gay potevano arruolarsi a patto che non mostrassero di esserlo in alcun modo, altrimenti si era subito congedati. Un primo passo avanti rispetto al bando totale, ma ancora ben lontano dal garantire agli omosessuali la possibilità di servire liberamente nell’esercito, come dimostra il fatto che i congedi per motivi di orientamento sessuale continuino al ritmo di 6-700 all’anno (dati Service members legal defence network).
Opinioni contrastanti - Negli ultimi anni, le critiche al don’t ask, don’t tell si sono intensificate, soprattutto a causa del forte bisogno di nuove leve per i conflitti in corso in Iraq e Afghanistan. A dicembre 2007, un gruppo di ventotto generali e ammiragli in pensione hanno ufficialmente richiesto al Congresso di abrogare la norma, citando un rapporto secondo cui i gay sarebbero almeno 65.000 tra i militari in servizio e oltre 1.000.000 tra i veterani. E appena pochi giorni fa, l’8 maggio, in un discorso ai diplomati dell’accademia militare di West Point, l’attuale Capo di Stato maggiore Mike Mullen ha rincarato la dose, sostenendo che “è solo per volontà del Congresso, e non dell’esercito, se è ancora in vigore il divieto di arruolamento per omosessuali e bisessuali”. L’omofobia resta però molto radicata negli ambienti dell’Us Army, come dimostra per esempio la dichiarazione del generale Peter Pace, datata marzo 2007, secondo cui “Gli atti omosessuali sono immorali e non andrebbero perdonati” e quindi “non sarebbe un buon servizio agli stati Uniti una politica che consenta di essere immorali in alcun modo”.
L’ultima decisione - Secondo i critici, la sentenza della Corte d’Appello di Seattle di mercoledì dimostrerebbe che la discussa politica avrebbe i giorni contati. In realtà, i giudici non hanno attaccato direttamente il don’t ask, don’t tell, ma si sono limitati a sostenere che per giustificare il congedo di un omosessuale l’esercito deve dimostrare che la sua presenza sia effettivamente dannosa per la coesione delle truppe e la loro prontezza all’azione, e che il suo allontanamento sia l’unico modo possibile per risollevare il morale del gruppo. “
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