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lunedì 11 agosto 2008

La danza entra in carcere e sfida i pregiudizi.

Elegante e crudo: “Io non sono razzista ma però” piace e commuove.

(Dario Serpan - Il Tirreno) Due opposti che si incontrano, il mondo della danza entra in contatto con quello del carcere, e così nasce “Io non sono razzista ma però”, lo spettacolo organizzato dall’Arci solidarietà che sabato sera ha animato il palco di Piazza del Luogo Pio, dove una folta cornice di pubblico si è fermata a seguire i passi di un’opera che scomoda il tema del razzismo, portando un contributo in merito al rapporto che Livorno ha con chi viene da fuori.

Marco Solimano, presidente dell’Arci Livorno, apre il sipario leggendo un passo del Manifesto della Razza, che un gruppo di scienziati fascisti scrisse nel 1938 e poi il regime utilizzò come base teorica per le leggi razziali. Da lì si prende spunto per tracciare un filo storico fino al ricordo dei quattro bambini rom morti a Livorno nell’estate del 2007.

E’ a loro che si dedica lo spettacolo, è in nome loro che il corpo di danza dell’Atelier delle Arti ha incontrato un gruppo di detenuti, membri della compagnia teatrale della Casa Circondariale di Livorno. L’eleganza teatrale cede il passo alla crudezza dei linguaggi, per narrare una storia ispirata allo scheletro di “Edipo a Colono”, la tragedia di Sofocle centrata sul tema dell’accoglienza dello straniero: un vecchio cieco arriva nella piazza del mercato di Atene dopo essere stato bandito dalla sua città ed aver vagato a lungo, scatenando tra i cittadini una discussione sull’opportunità di dargli asilo, nonostante i rischi che ciò comporta.

Sulla piazza del mercato cittadino, Edipo, un cittadino rumeno ricercato nel suo paese, vive tutta la sua parabola, incrociando la voce in apparenza accogliente delle istituzioni con quella ostile dei cittadini, e la curiosità nasce da un’inversione delle parti, “perché in questo spettacolo - spiega il regista Alessio Traversi - i detenuti, molti dei quali di origine estera, fanno la parte dei cittadini, mentre le danzatrici indossano i panni dello straniero”. E così le ballerine inscenano il ballo dei lavavetri, quello dei mendicanti, e poi si fanno carico del corpo di Edipo, che dopo aver incontrato il rifiuto della città, lascia la piazza e anche la vita, “perché è meglio morire che vivere come un morto”.

Uno striscione con i nomi di Mengi, Eva, Danchili e Leonuca chiude lo show nel segno dei quattro bambini morti un anno fa: “A loro come ricordo - dice Marco Solimano - e come impegno, perché dopo quel fatto la città ha mostrato la sua fragilità intorno al tema dei processi migratori”. Maurzio Quintero, un detenuto colombiano che ha recitato nello show, dice invece: “Il carcere è un posto brutto, ma ci si trova gente normale, che lavora, studia e fa tante attività. Questo evento serve per lanciare un piccolo messaggio all’esterno, per dire che anche noi abbiamo un cuore”.

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