(Panorama) Arrestato in fabbrica, la Breda di Sesto San Giovanni, deportato a Mauthausen, ucciso che non aveva ancora 40 anni durante una “marcia della morte” da un lager all’altro. Guido Valota, classe 1905, è uno dei 553 operai della città alle porte di Milano finiti nei campi di concentramento nazisti. Duecentotrentuno non tornarono mai a casa. A ricostruire la sua parabola tragica, insieme a quella degli altri prigionieri, è il figlio Giuseppe, che oggi ha 69 anni ed è presidente dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati) di Sesto, nel libro edito da Guerini e Associati Streikertransport (letteralmente “trasporto scioperanti”, ndr) - La deportazione politica nell’area industriale di Sesto San Giovanni, 1943-1945.
“Sono uno dei pochi figli di deportati ad aver messo insieme, tassello dopo tassello, l’intera vicenda del padre”, dice Giuseppe Valota. E comincia il racconto, lo stesso che fa da anni ai ragazzi delle scuole che lo invitano. “Mio padre faceva l’attrezzista nel reparto aeronautico e per passione suonava il violino. Lo chiamavano ‘Soccorso Rosso’, perché raccoglieva soldi clandestinamente per le famiglie degli operai in difficoltà”. Nel marzo del ‘44 Guido partecipa agli scioperi in fabbrica e per questo viene arrestato dai fascisti.
Finisce a San Vittore, dove i nazisti prendono in consegna i prigionieri. Per Mauthausen parte dalla stazione di Bergamo. Arriva al campo il 20 marzo, dopo tre giorni di viaggio a bordo dei vagoni piombati dei treni merci. Da qui, dopo essere stato immatricolato, depilato e vestito con l’uniforme a righe, viene trasferito prima a Gusen e poi a Vienna, dove lavora nelle fabbriche dell’aeronautica. Alla fine di marzo i nazisti sono ormai alla vigilia della disfatta. Einrich Himmler ordina che tutti i prigionieri rientrino a Mauthausen.
Per Guido e i suoi compagni comincia la “marcia della morte”. Duecento chilometri a piedi, al freddo, per strade secondarie. “Le cronache dell’epoca dicono che piovve otto giorni di fila”, ricostruisce Giuseppe. Pioveva anche il giorno in cui Guido Valota morì, era il 5 o il 6 aprile 1944. I prigionieri che non ce la facevano più a marciare venivano giustiziati con un colpo alla nuca dai soldati e poi ricoperti con un po’ di terra dagli “spalatori”, loro stessi deportati. “Per impedirne l’identificazione, prima di ucciderli, gli strappavano dai vestiti i numeri di matricola”, spiega Giuseppe Valota.
“Mio padre è crollato a Steyr, una bellissima cittadina a sud di Linz”, continua lo storico. “In città confluiscono due fiumi e ci sono due ponti. Vicino ai ponti c’è una breve salita, saranno cento metri di pendenza minima. È lì che mio padre si è arreso, invocando i nomi di sua moglie e dei suoi figli. Quel giorno è morto con lui anche il suo amico, l’ingegner Cima Pericle della Tosi di Legnano (Valota chiama i suoi personaggi rigorosamente con cognome e nome, ndr), mi piacerebbe molto conoscere i suoi parenti”. Ogni anno Giuseppe Valota va sui luoghi dello sterminio nazista insieme agli altri soci dell’Aned. Due anni fa è stato a Steyr e grazie a un’associazione culturale del posto ha capito che fine ha fatto il corpo di suo padre.
“Lì c’era un lager, ma senza fondo crematorio”, ricorda. “Ne aveva però uno il cimitero cittadino”. Lo scorso anno Guido è tornato a Steyr e finalmente il cerchio si è chiuso. “Siamo andati al cimitero, dove sono custodite le urne con i resti di 350 persone ignote morte durante la guerra. Ho guardato il mio accompagnatore locale e ‘Eine moment’, gu dì (‘un momento’, gli ho detto, in un misto di tedesco e dialetto, ndr). Mio padre era lì. Ho pianto, soprattutto pensando che 25 anni prima avevo dormito lì vicino durante un altro viaggio e non sapevo nulla”.
Come è riuscito questo operaio in pensione e nonno bonario a trovare il punto esatto della morte di suo padre dopo 63 anni dai fatti e dopo 15 anni di ricerche? Grazie alle testimonianze, prima di tutto quella della madre e del fratello maggiore. Giuseppe aveva 5 anni all’epoca ed era sfollato a Bergamo dai nonni. E seguendo il filo dei ricordi di due reduci ottantenni, ora scomparsi, che sono stati deportati e hanno marciato col padre: “Il Croci Santino e il Sardini Adamo, che mi hanno indicato il luogo in cui hanno dovuto lasciarlo a terra”.
Poi ci sono “i pizzini dei deportati”. Una scia di bigliettini che i prigionieri gettavano dai vagoni non appena si fermavano vicino a un centro abitato. “Ci scrivevano i nomi e gli indirizzi dei loro cari e qualche anima buona li ha raccolti e li ha spediti alle famiglie, aggiungendo qualche pietosa bugia. Frasi come: ’suo marito sta bene, le scriverà dalla Germania’”, spiega Valota che ha ripercorso quella scia di messaggi e li ha trascritti nel suo libro.
A Sesto San Giovanni, allo Spazio Mil di via Granelli, è aperta anche fino al 22 febbraio una mostra di fotografie inedite sui lager. “Le immagini dell’inimmaginabile” raccoglie gli scatti delle stesse SS, fatte a scopo di propaganda e conservate quasi per caso, documentando lo sguardo del carnefice sul proprio orrore. Orari di apertura: dal martedì alla domenica, dalle 9 alle 12 e dalle 14.30 alle 17.30.
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