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(Antonio Rossitto - Panorama) In un’afosa mattina di metà agosto Chiara Poggi, 26 anni, viene trovata morta nella sua villetta di Garlasco con la testa fracassata. Sette mesi dopo, lo scorso martedì 18 marzo, sono cominciate nel dipartimento di medicina legale dell’Università di Pavia le analisi su sette capelli che la ragazza stringeva nella mano destra. Si riparte da capo? “Ci mancherebbe… Ma non vogliamo tralasciare alcuna ipotesi” corregge Alfonso Lauro, procuratore di Vigevano. Fatto sta che gli altri capelli trovati nella medesima mano erano già stati analizzati dal Ris di Parma, che non era riuscito a estrarne il dna.
Il celebrato reparto di investigazioni scientifiche è stato nei fatti escluso dal nuovo incarico? “Illazioni” replica infastidito il procuratore. “Avevamo solo bisogno di specialisti che nel Ris ci sono, ma non a livello universitario. Quindi abbiamo preferito dare altrove la consulenza”.
Comunque sia, l’omicidio di Garlasco ha mostrato i limiti della scienza applicata alle indagini. La nuova consulenza sui capelli di Chiara Poggi è solo l’ultimo episodio di un’inchiesta cominciata male e mai finita. Panorama ne svela, per la prima volta, tutti i passi falsi.
Le dubbie tracce di sangue sui pedali della bici di Alberto Stasi, fidanzato della vittima e unico indagato; le impronte digitali che il ragazzo avrebbe lasciato sul portasapone; l’inquinamento della scena del crimine; il giallo della riesumazione di Chiara Poggi: tutti elementi che gettano pesanti ombre su uno dei casi di cronaca nera più misteriosi degli ultimi tempi.
A partire proprio da quei capelli che adesso Carlo Previderè e Gabriella Peloso hanno il compito di analizzare “entro 60 giorni”: questo scrive il pm Rosa Muscio, titolare delle indagini, nel verbale di conferimento dell’incarico. I due genetisti dovranno estrapolare il profilo genetico e poi confrontarlo con tutte le persone coinvolte nell’inchiesta: da Stasi fino alle cugine di Chiara, Paola e Stefania Cappa.
Nella relazione tecnica del Ris, inviata alla procura di Vigevano il 16 novembre, si parla di “reperto 10-A”: una “ciocca di capelli, lunghi circa 20 centimetri, variamente imbrattati di sangue, verosimilmente relativi alla vittima”. Tutti “privi di radici e quindi non utili” per estrarre il “dna nucleare”. I tecnici del Ris infatti annotano: “Nessun prelievo effettuato”. Saranno adesso i biologi dell’Università di Pavia a fare quegli accertamenti che hanno meritato appena quattro righe di ragguagli.
Ben più ponderosa la mole di lavoro sulla bicicletta marrone di Stasi. Il 24 settembre 2007 viene inviata alla procura di Vigevano una “relazione preliminare” con l’accertamento sui pedali: “Ha permesso di ottenere un profilo genetico riconducibile, al di là di ogni ragionevole dubbio, alla vittima”. Sui pedali vengono scoperte delle piccolissime crosticine rosso-brunastre: “Sottoposte al Combur test, per la diagnosi generica della natura ematica delle tracce, hanno fornito esito positivo”. Secondo il Ris, su quei pedali c’è il sangue di Chiara Poggi. Se ne convince anche Rosa Muscio che, sulla base di quella relazione, arresta Stasi.
Il giorno seguente, il 25 settembre, il reparto scientifico dell’arma manda una “nota tecnica” sugli esami del giorno prima: “Risultati”, ammette il documento, comunicati senza “procedere a ulteriori accertamenti”. C’è di più; il 24 settembre quelle tracce sono considerate senza dubbio di sangue, tanto da convincere il pm a spiccare il decreto di fermo per Stasi. Un giorno dopo la posizione del Ris è più sfumata: “Il profilo genetico relativo alla vittima” è solo “con elevata probabilità riconducibile a sangue”. Le certezze che hanno portato in galera l’ex fidanzato di Chiara Poggi sono scomparse.
Il 27 settembre Francesco Maria Avato, consulente tecnico di Stasi, invia le sue osservazioni alla procura. Il professore di medicina legale dell’Università di Ferrara spiega che le analisi del Ris non dimostrano “la presenza di emoglobina”. Quindi non consentono “la qualificazione di una determinata traccia come ematica”.
Stasi viene scarcerato il 28 settembre, il giorno dopo la relazione di Avato. Il gip di Vigevano, Giulia Pravon, considera “insufficienti” gli indizi raccolti. Quello sui pedali potrebbe non essere sangue: un dubbio del resto legittimato anche dalla formula usata dal Ris nella nota del 25 settembre: “Elevata probabilità”.
Potrebbe essere invece saliva, dicono i difensori di Stasi. Una divergenza di opinioni che ricorda il caso di Cogne. Per il Ris quello trovato sulle pantofole di Anna Maria Franzoni era sangue; per altri periti era solamente sudore.
In un ipotetico libro sui punti oscuri dell’indagine, un capitolo a parte, anche questo voluminoso, meriterebbero le impronte. A cominciare da quelle digitali. Due di queste sarebbero per l’accusa un’ulteriore prova a carico di Stasi: due ditate sul dispenser del sapone nel bagno al piano terra. Nella parte della consulenza tecnica dedicata agli accertamenti dattiloscopici si legge: “Appare comunque suggestivo che le uniche impronte dell’indagato, oltre a quelle rinvenute sul cartone per il trasporto della pizza, siano state evidenziate proprio sull’erogatore del sapone liquido, davanti al quale ha sostato l’omicida con le scarpe fortemente imbrattate del sangue della vittima”.
Due tracce che però, probabilmente, non reggerebbero in un processo. Per la giurisprudenza italiana, un rilievo dattiloscopico ha valore probatorio certo solo quando ha 16 punti (detti minuzie) in comune con l’impronta di una persona. Però una delle presunte tracce dell’anulare destro di Stasi ha solo 13 minuzie: quindi non ha “utilità giuridica”. L’altra ne ha 17. “È un’interpretazione forzata” ammette, dietro l’anonimato, un esperto di dattiloscopia in servizio al Ris. “I punti utili in quell’impronta non sono più di una decina”.
Oltre ai segni che avrebbe lasciato Stasi, sulla scena del delitto sono state trovate molte altre impronte. Nella consulenza tecnica c’è una lunga tabella: dieci sono del fratello di Chiara Poggi, due del padre, tre di un falegname che, qualche giorno prima dell’omicidio, aveva fatto dei lavori nella villetta di via Pascoli. Il documento firmato dal Ris conferma: oltre a Stasi, “tutte le restanti impronte sono state attribuite alla vittima, ai suoi familiari, a un operaio”, ma pure “al personale che ha effettuato i primi accessi alla scena del crimine”. Cioè i carabinieri.
Quattro tracce sono del capitano Gennaro Cassese, che guida la compagnia di Vigevano. Una è del colonnello Giancarlo Sangiuliano, a capo del comando provinciale di Pavia. C’è poco da sorprendersi: nessuno ormai crede più alla scientifica rappresentata nelle fiction, in cui ogni cosa funziona alla perfezione. La scena del crimine viene immediatamente preservata, in attesa dell’arrivo degli uomini in tuta e sovrascarpe bianche. A volte, invece, i primi momenti di un’indagine possono essere molto convulsi.
Non dovrebbe accadere, però un movimento maldestro può sfuggire. Ma a Garlasco è accaduto molto di più. Lo descrive nei dettagli la stessa relazione del Ris. “Numerose tracce per deposizione ematica” si trovano sul pavimento del soggiorno, in direzione del corridoio, dove Chiara Poggi fu presumibilmente trascinata e poi spinta giù per le scale della cantina. Tracce di sangue con “un medesimo disegno”: “che ricorda nella forma la lettera greca lambda”. Segni che, viene specificato, non appartengono né a suole di scarpa e nemmeno ai “depositi lasciati dalla cassa mortuaria”.
Invece: “L’originaria posizione del divano, così come ripreso dall’Arma territoriale di Pavia all’atto del primo sopralluogo, era parzialmente sovrapposta all’area in cui sono state osservate le tracce lambda”. Significa che il sofà è stato spostato con poca accortezza. Infatti, questi residui possono riferirsi “alle prime attività sulla scena del crimine, allorquando il sangue della vittima non era completamente coagulato”.
Ma pure dopo l’intervento del reparto scientifico dell’Arma sembra che le cose non siano migliorate. Il segno del palmo destro ritrovato sul portone è del maggiore Marco Pizzamiglio, vicecomandante del Ris di Parma. E gli uomini ai suoi ordini non fanno apparentemente di meglio. Altre tracce nell’ingresso e nel corridoio “esibiscono una caratteristica suola a carro armato, tipica delle calzature pesanti, nonché di quelle militari”. Tracce che “devono ragionevolmente riferirsi all’azione di riporto delle calzature del personale di questo reparto intervenuto durante i precedenti sopralluoghi”. Cioè il Ris di Parma.
Un’abbondanza di reperti che stride con il più imprevedibile dei paradossi. Il 20 agosto, una settimana dopo il delitto, la salma di Chiara Poggi viene inaspettatamente riesumata. I tecnici del Ris devono prendere le impronte digitali sul cadavere. Nelle prime, concitate, fasi dell’inchiesta qualcuno aveva dimenticato di farlo.
(antonio.rossitto@mondadori.it)
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