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mercoledì 12 marzo 2008

"Paure, segreti e nuove sfide, la battaglia contro l'Aids". Il virus continua a diffondersi e l'unico modo per fermarlo è la prevenzione.

Un compito difficile perché questa infezione si alimenta del valore degli affetti e delle emozioni e perché i sintomi non compaiono immediatamente

(Franco Carletti - Il Resto del Carlino) Forse per vincere questa malattia dovremmo seguire l’esempio del Botswana, primo Stato a rendere obbligatori i test di controllo per il virus dell’Hiv.

Provocazioni a parte, la lotta all’Aids continua a essere un lavoro difficile, perché questa infezione si alimenta del valore degli affetti e delle emozioni. Difficile da capire, perché i sintomi non compaiono immediatamente, ma a distanza di 10/15 anni.

E in questo tempo vatti a ricordare i partner con i quali si sono intrattenute delle relazioni. Difficile perché, come sottolinea Paula Castelli, dirigente medico dell’unità malattie infettive di Macerata (che ha raccolto le storie e le testimonianze di malati che riportiamo qui a fianco), viene sempre "considerata come la malattia degli altri, quella che non potrà mai riguardarci".

Sono trascorsi pochi anni da quando l’infezione da virus Hiv veniva associata al volto scheletrico di un uomo o di una donna distesi su un letto d’ospedale con negli occhi lo stupore, la vergogna e il dolore di dover scontare un proprio peccato.

Nel 1994 il reparto di malattie infettive di Macerata seguiva 63 pazienti, il 60% dei quali tossicodipendenti, il 14% omosessuali e il 22% eterosessuali. Più o meno consapevolmente la nostra morale ci rendeva distanti dall’Aids, pensando che quel virus non ci avrebbe mai toccato, apparteneva alle cosiddette categorie a rischio. Malattia e peccato.

Poi le cose sono andate diversamente. Il virus dell’Hiv è entrato nel vissuto delle famiglie. E’ così che, tredici anni dopo, nel 2007, su un totale di 131 casi, gli eterosessuali erano il 60%, soltanto il 20% rientrava nella categoria dei tossicodipendenti, mentre restavano stabili gli omosessuali.

Questa nuova ripartizione percentuale ha in parte contribuito a sdoganare la malattia dal suo legame con la riprovazione sociale legata alla diversità. Essendo comunque pur sempre connessa alla sfera sessuale, continua a nutrirsi di forti sensi di colpa.

La possibilità di un contagio è qualcosa che non vogliamo prendere in considerazione. In un primo momento le cure imponevano una moltitudine di pillole e fastidiose scadenze, che sconvolgevano la normale vita quotidiana. Inoltre non garantivano una valida cura. Oggi i medicinali da prendere sono pochi, di facile somministrazione, efficaci al punto da permettere una aspettativa di vita del tutto simile a quella di una persona sana.

Occorre però una diagnosi precoce, che purtroppo manca. Nella fascia di popolazione sessualmente attiva, solo una piccola percentuale si sottopone al test dell’Hiv. "Quello che si evidenzia — continua Paula Castelli — è l’esistenza di un progressivo ritardo nella diagnosi. Nel 2006 circa il 54% dei nuovi pazienti sono arrivati ai nostri ambulatori avendo già una depressione immunitaria grave, quello che chiamiamo Aids conclamato, con conseguenze negative sulla prognosi".

Recenti ricerche svolte negli Usa su un gruppo di pazienti diagnosticati con ritardo, hanno dimostrato che essi erano venuti in contatto con strutture sanitarie negli anni precedenti la diagnosi una media di 4 volte ciascuno, senza che venisse effettuato il test. "Si può parlare di occasioni mancate — conclude la dottoressa Castelli — ed è evidente la necessità di adottare interventi più incisivi nell’ottica di una diagnosi precoce".

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