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martedì 15 luglio 2008

Nuoto. Shanteau a Pechino 2008 sfiderà anche il cancro.

(Sport live) Andrà ai giochi Olimpici di Pechino nonostante i medici gli abbiano diagnosticato un tumore: è questa la delicata storia di Eric Shanteu. Lo statunitense ha scoperto di essere vittima di un tumore ai testicoli una settimana prima dei Trials di Omaha, ma nonostante tutto il 24enne gareggia, ottiene la qualificazione e in Cina ci sarà. La cura del tumore è rimandata al termine della competizione olimpica: il nuotatore si sottoporrà all’intervento una volta tornato da Pechino.

Grazie al suo secondo posto nelle qualificazioni, Eric ha fatto fuori il favorito dei Trials ovvero il primatista mondiale Brendan Hansen, finito solo quarto. Il georgiano verrà comunque tenuto sotto controllo da alcuni medici durante tutte le gare e negli allenamenti in vasca.

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Funari, addio tra gli applausi della gente. L'ultimo saluto.


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(Tiscali notizie) Gianfranco Funari se s'è andato tra l'affetto e gli applausi della gente. In una funzione religiosa dove tutto è andato come doveva andare (senza fiori, poche corone, con musica e parole annunciate) quello che è mancato sono stati i grandi nomi della televisione italana, l'habitat naturale del 'giornalaio piu' famoso d'Italia" come amava definirsi, morto a 76 anni. Ma chi, comunque, ha voluto esserci ha anche deciso di non correre il rischio di rimanere fuori: una piccola folla di gente qualunque, già dall'una, attendeva fuori della Chiesa di San Marco che venissero aperte le porte.

Pochi i Vip presenti alla cerimonia - Poi, alla spicciolata, si sono viste le prime facce note, poche in verità: un commosso Cristiano Malgioglio, la direttrice di Diva e Donna, Silvana Gacobini, Cecchetto, Piero Chiambretti, l'ex ministro alla Famiglia, Antonio Guidi e, dalla Rai, Antonio Marano e Carlo Freccero.

Girasoli depositati sulla bara - Lui, Funari, è arrivato sotto una pioggia di girasoli depositati sulla bara (fiori che il presentatore immaginava per l'aldilà), insieme agli emblemi dell'immagine in tv: bastone e cappello. Ad accoglierlo in chiesa l'applauso della gente e "Blowing in the wild" di Bob Dylan, seguita dalla lettura registrata di Funari stesso dei versi in italiano.
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Siffredi: "Le donne della politica? Mi piacerebbe fare sesso e senza tanti complimenti con la Santanchè".

Le trovo terribilmente eccitanti". L'ex attore porno rivela la sua 'passione' per la politica italiana: "La Brambilla è una gatta che se ne farebbe fare di tutti i colori.
(Quotidiano.net) "Sono attratto dalle donne che hanno una forte personalità, che mettono l'essere sexy in secondo piano. Ce ne sono tante in politica che più sento parlare più trovo eccitanti". Così Rocco Siffredi, ex attore porno, confessa a 'Chi', la sua 'passione' per la politica. "Le donne del partito di Berlusconi sono quasi tutte portate a scatenare la mia immaginazione. Tutte le donne che lo accompagnano - sottolinea Siffredi - mi danno l'idea di essere portate per un'attività sessuale frenetica e divertente".

Il regista e produttore di film hard stila la sua personale classifica: "Quella che oggi mi ispira di più è Michela Vittoria Brambilla, una da mettere al centro dell'attenzione, una gatta che se ne fa fare di tutti i colori. E poi è rossa, ha la pelle bianca. Ah, e a proposito di rosse - aggiunge - c'è la Gruber che ha sempre fatto parte dei miei sogni erotici, lei la vedo molto fetish".

"Irene Pivetti, poi, sono anni che mi avvince, il massimo l'ha raggiunto quando si è rasata la testa, sembrava una disposta a tutto. Lei mi piaceva anche col foulard - spiega ancora l'ex attore porno - si capiva che non ce la faceva a reggere la parte dell'ingessatona. Però, la persona con cui proprio mi piacerebbe fare sesso, e senza tanti complimenti, è Daniela Santanchè".

Infine sui suoi rapporti con gli esponenti della politica italiana, afferma: "Ho pranzato e cenato con sindaci di grandi città e con loro si è parlato sempre e solo di sesso e perversioni, ma non lo si è mai fatto".

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Bolzano Danza 2008: un pout-pourrì linguistico di musica e spettacolo.

Bolzano Danza

Foto di Chris Nash
(Elena Beninati - Panorama) Bolzano Danza 2008, ovvero un pout-pourrì linguistico di musica e danza ospitato sino al 25 luglio al Teatro Comunale di Bolzano e al Messner Mountain Museum.
L’apertura, che si è svolta il 12 luglio, ha omaggiato la danza di strada e le virtuosistiche combinazioni dell’hip hop dei Pockemon Crew con C’est ça la vie!
Oggi è invece la volta dell’ironico duetto Don Q ispirato al Don Chisciotte di Cervantes, nato dall’incontro umano e artistico tra Egon Madsen e Eric Gauthier, sotto l’egida della coreografa Christian Spuck, in cui primeggia il primo ballerino dello Stuttgart Ballett Marijn Rademaker nel vibrante assolo Äffi di Marco Goecke.
Cinema e danza insieme il 16 nel graffiante Péplum, voluttuosa e tragica reinterpretazione del dissidio amoroso di Antonio e Cleopatra, con le voci della coppia Liz Taylor-Richard Burton, firmata dal franco-algerino Martin-Gousset. L’amore e il suo naufragio, perversione e glamour, che si intrecciano al ritmo incalzante della musica rock.
L’indomani Tagebuch… si un jour tu decides de partir dell’autrice dell’autrice dal segno raffinato Anna Konjetzky, che porta in scena un trio per due danzatrici e contrabbasso ispirato ai versi del poeta israeliano Avrakam Ben-Yitzhak.
Venerdì 18 va in scena la stella della nuova danza inglese Henri Oguike in Tiger Dancing, Expression Lines, Little Red, Green in Blue, perfetta esplicazione architettonica di corpi che vibrano ai ritmi blues di Ali Farka Touré e al suono jazz di Iaim Ballamy .
Spazio al meticciato il 20 luglio nel graffiante trittico dell’israeliano Hofesh Shechter de GENERATION. Uomini in bilico a cavallo fra tre generazioni per gli intimistici Cult e Fragments e il seducente Uprising.
Volti bianchi e corpi flessibili inguainati in gonne lunghe il 22 con i danzatori di Sankai Juku, che nello spettacolo Utsushi impongono la bellezza magnetica del butoh giapponese al ritmo dei migliori brani di Ushio Amagatsu. E per chiudere in gran pompa il 25 festa-sfilata con musica live dei Mad Puppet a Castel Firmiano.
Info e biglietteria al numero 0471.053800 (Prezzi da 5 a 25 euro).

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Usa. Dal candidato McCain e' no alle adozioni gay.

(Queerblog) Intervistato dal New York Times, John McCain, candidato repubblicano alle presidenziali USA, ha dichiarato di essere contrario alle adozioni da parte delle coppie gay e di concepire la famiglia in senso tradizionale.

Il presidente Bush ritiene che alle coppie gay non dovrebbe essere permesso adottare bambini. Che ne pensa?
Penso che sia provato che entrambi i genitori sono importanti per il successo di una famiglia e così non credo nelle adozioni da parte di gay.
Anche se l’alternativa per i bambini è quella di stare in un orfanotrofio o di non avere genitori?
Sostengo le adozioni e sostengo l’opportunità per le persone di adottare i bambini e spero che il processo di adozione sia meno complicato e quindi si possa velocizzare il tutto. Cindy [la sua seconda moglie, ndr]e io siamo orgogliosi di essere genitori adottivi.

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Silvio Berlusconi. Un entertainer a Pigalle.

Berlusconi alla tv francese: "Il 14 luglio e la presa della Bastiglia mi ricordano solo Yves Montand".

(Daniele Sensi) Dichiarazione rilasciata da Silvio Berlusconi, in Francia per i festeggiamenti del 14 luglio (Presa della Bastiglia), all’emittente francese BFM. Nessun richiamo “alto”, ovviamente, al significato di quella data. Poco importa la Rivoluzione francese (pericolosamente antesignana a quella d’Ottobre, secondo Berlusconi? troppo riecheggiante, per la sua degenerazione giacobina, la “magistratura rossa” nostrana?). E nessun riferimento alla “invenzione” dei Diritti dell’uomo e del cittadino. No, per Berlusconi 14 luglio significa solo una canzone –per quanto bella- della sua giovinezza.

Questa la traduzione delle sue parole:
Ero studente alla Sorbona, il giorno; e la notte lavoravo a Pigalle. E c’era una canzone che ricordo molto bene, “à Paris”, che diceva, nel finale: “Da quando a Parigi s'è presa la Bastiglia, in ogni borgata e ad ogni incrocio, ci sono ragazzi e ragazze che senza sosta danzano nella strada”. Questi sono i miei ricordi. Ed è per questo che sono veramente contento di essere finalmente qui per festeggiare con gli amici francesi il 14 luglio.

Laconici, alcuni blogger francesi si chiedono: “Ma che ci faceva Berlusconi a Pigalle, quartiere dei sexy shop?”
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Giordano Bruno Guerri. L’Italia e le leggi razziali.

Enrico Fermi, premio Nobel per la fisica proprio nel 1938, essendo sposato con un’ebrea lasciò per protesta l’Italia.

Fino al 14 luglio 1938 il regime fascista era stato piuttosto indifferente ai problemi della razza, a parte le remore naturali di un movimento nazionalista. Mussolini non era antisemita e come lui moltissimi gerarchi. Dopo il “Manifesto degli scienziati italiani” pubblicato quel giorno (”E’ tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti”), nacquero riviste come La difesa della razza di Telesio Interlandi: ma rappresentarono soltanto il fanatismo di qualche intellettuale. In Italia, che aveva una lunga storia di invasioni e di meticciato razziale, quasi nessuno credette davvero alla “differenza biologica”.

In ogni modo è sbagliato credere, come accade spesso, che il regime fascista abbia emanato le leggi razziali per un pedissequo e passivo scimmiottamento della Germania italiana, con la quale stava sempre più stringendo un’alleanza che l’anno dopo avrebbe portato al Patto d’Acciaio. Certo, l’esempio tedesco servi da stimolo, ma Mussolini aveva – fin dalla nascita del regime – obiettivi precisi, ben prima che anche Hitler conquistasse il potere. Il principale di questi obiettivi era la trasformazione del popolo italiano: ovvero farne un popolo guerriero, con un alto senso dello Stato e della collettività, orgoglioso e fiero di sé e del proprio Paese. In questo quadro si inserisce anche la lotta alla borghesia che – se aveva portato il duce al potere – non si dimostrava abbastanza sensibile verso la figura di quell’”italiano nuovo”, duro, combattente, che si voleva formare. Proprio nel 1938, lo stesso anno delle leggi razziali, Mussolini comunicò al Consiglio Nazionale del partito di avere “individuato un nemico del nostro regime. Questo nemico ha nome borghesia.” In seguito avrebbe dato questa definizione: “Il borghese è quella persona che sta bene ed è vile.”

Le leggi razziali, più a che perseguitare l’esigua minoranza ebraica, miravano dunque a formare negli italiani uno spirito da razza guerriera, dominante e inflessibile. Va da sé che questa motivazione non allevia, casomai rende più grave, l’applicazione delle leggi razziali. Come non serve a diminuirne la gravità etica il fatto che, dopo la conquista dell’Etiopia, le leggi mirassero anche a separare gli italiani da una popolazione “inferiore” e dalla pelle scura. Né serve considerare che, prima dell’Olocausto, le leggi razziali apparivano infinitamente meno gravi di quanto sembrino a noi, che abbiamo sotto gli occhi il loro risultato finale, quello dei campi di sterminio. Né consola che la Chiesa di allora, a differenza di quella di oggi, continuasse a ritenere l’intero popolo ebraico “deicida”. A partire dal 1938 molte testate razziste riproposero integralmente vecchi e recenti articoli antisemiti della Civiltà Cattolica, la rivista dei gesuiti, e Farinacci poté dire, in un discorso: “Se, come cattolici, siamo divenuti antisemiti, lo dobbiamo agli insegnamenti che ci furono dati dalla Chiesa durante venti secoli. (…) Noi non possiamo nel giro di poche settimane rinunciare a quella coscienza antisemita che la Chiesa ci ha formato lungo i millenni.”

Sarebbe falsamente consolatorio sostenere che gli italiani furono impermeabili al razzismo. Soprattutto molti giovani, formati nelle scuole fasciste, aderirono all’antisemitismo, anche se fu un’adesione più ideologica che di sostanza. Suggestionati dalla propaganda, dagli esempi delle guide intellettuali e politiche, furono soprattutto affascinati dalla visione di una nuova cultura in funzione antiborghese che sarebbe nata dal concetto di razza: solo dei “puri” e dei “forti”, infatti potevano permettersi di sentirsi razzialmente superiori. E’ anche vero che, come ha dimostrato Mimmo Franzinelli nel saggio Delatori (Mondadori), non furono pochi gli italiani a esercitarsi nell’ignobile arte della denuncia di ebrei; né è consolatorio che lo facessero più per motivi di invidia sociale o di concorrenza commerciale che per vero razzismo.

Quanto alle conseguenze pratiche, il 1° settembre 1938 venne istituito presso il ministero degli Interni il Consiglio superiore per la demografia e per la razza; lo stesso giorno si stabiliva con un decreto legge che gli ebrei residenti in Italia da dopo il 31 dicembre 1918 dovevano andarsene; veniva revocata la cittadinanza italiana agli ebrei stranieri che l’avevano ottenuta dopo quella data. A tutti gli ebrei venne vietato di porre la propria residenza entro i confini del regno, agli italiani furono vietati i matrimoni con gli ebrei e ai dipendenti statali con qualsiasi straniero. Nelle scuole la discriminazione di insegnanti e allievi fu immediata.

Le uniche personalità di spicco che avversarono davvero il razzismo furono Italo Balbo, Massimo Bontempelli e Filippo Tommaso Marinetti. Enrico Fermi, premio Nobel per la fisica proprio nel 1938, essendo sposato con un’ebrea lasciò per protesta l’Italia. Gli altri intellettuali e gerarchi, invece, si adattarono all’antisemitismo al pari del popolo, forse soltanto perché‚ c’era qualcuno su cui riversare la responsabilità di un malcontento generale. Gli italiani avevano sperato che, dopo la conquista dell’Etiopia e la costruzione dell’impero, il regime si sarebbe applicato al benessere e alla crescita economica. Invece era intervenuto nella guerra di Spagna, il valore d’acquisto dei salari diminuiva, e il regime chiedeva una fede sempre più cieca. Se molti, in segreto, disapprovavano le leggi razziali, i più limitarono il proprio dissenso a sterili – o, durante la guerra, eroici - atteggiamenti di pietismo individuali.

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Filippine. Chiesa cattolica dice si a preservativo se partner con Aids.

(La Repubblica) La Chiesa cattolica apre all'uso del preservativo per combattere la diffusione dell'Aids. L'utilizzo del contraccettivo e' "consentito" solo tra coniugi, nel caso in cui uno due sia ammalato di Aids o portatore sano di Hiv e quindi puo' contagiare l'altro, ma l'apertura avviene nelle Filippine, unico Paese cattolico dell'Asia e tradizionalmente conservatore. "E' sempre preferibile l'astinenza e il rapporto protetto deve essere l'ultima possibilita'", ha detto il portavoce della Conferenza episcopale cattolica (Cbcp), Edwin Carros, precisando che "la Chiesa continua a censurare l'uso del preservativo e ne permette l'utilizzo solo nel caso in cui serva a salvare una vita, quella della moglie del malato, che ha il diritto di manifestare amore per il coniuge senza correre il rischio di pregiudicare la propria salute". Questa settimana la Conferenza episcopale filippina, per la prima volta nella sua storia, partecipa ad un programma di educazione e sensibilizzazione in tema di Hiv, che prevede un manuale che sara' distribuito nelle scuole.

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Lenny infiamma l'Arena di Milano.

Lenny Kravitz e la rivoluzione dell'amore. Il quarantaquattrenne rockstar newyorkese conferma la sua fama di perfetto sex symbol. Lo precede il gruppo islandese Sigur Rós.

Il Milano Jazzin' Festival entra nel vivo con due nomi di richiamo internazionale (che peraltro ben poco hanno a che vedere con il jazz). Sul palco dell'Arena saliranno gli islandesi Sigur Rós (domenica 14) e Lenny Kravitz (lunedì 15). «Con un ronzio nelle orecchie suoniamo all'infinito» è più o meno è la traduzione di «Með suð í eyrum við spilum endalaust», titolo del quinto e più recente lavoro dei Sigur Rós, uscito pochi giorni fa. Per chi ha poca dimestichezza con l'islandese, niente paura. Non è l'unica lingua utilizzata dalla band.
Molte delle canzoni infatti sono cantante in «hopelandic», un idioma inventato dal cantante Jón Þór Birgisson, in cui le parole vengono scelte soltanto per la loro musicalità. Da nome di culto della scena alternativa i Sigur Rós hanno conquistato negli anni un pubblico sempre più vasto (tra i loro fan anche Madonna, David Bowie e Tom Cruise): merito di due album come «Ágætis byrjun» (1999) e il successivo intitolato semplicemente «()» (2002). Atmosfere oniriche che rendono la musica del gruppo una sorta di cartolina dell'Islanda tradotta in suoni.
Tutt'altro stile invece per Lenny Kravitz, di scena lunedì. A febbraio è uscito il suo ottavo album «It's Time For a Love Revolution», quattordici tracce interamente scritte, arrangiate e prodotte dallo stesso rocker americano. Un inno all'amore, a partire dal titolo, così come del resto lo era il disco di esordio, «Let Love Rule» (1989). Ma i legami con il passato non finiscono qui. Vicina ai suoi esordi è anche la ricerca di un suono più rock, con riff di chitarra che entrano subito in testa. Gusto che per molti strizza l'occhio al sound dei grandi gruppi degli anni 70. Dopo l'uscita dell'album Kravitz ha deciso di imbarcarsi insieme alla band in un tour lungo due anni. Oltre ai nuovi brani, in scaletta all'Arena non mancheranno anche le ballate che, abbinate a un look da impeccabile «fashion victim», sono valse alla quarantaquattrenne rockstar newyorkese l'etichetta di perfetto sex symbol.
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(Sky tg24) Energia e seduzione sono andate in scena ieri sera all'Arena Civica di Milano per il concerto di Lenny Kravitz. Il rocker newyorkese, guest star della rassegna "Milano jazzin' Festival", ha interpretato con grande energia ed un'inedita anima blues alcuni dei brani del suo ultimo album "It's time for a love revolution" e i suoi classici cavalli di battaglia, da "American woman" a "Are you gonna go my way".
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Il ritorno del Joker, l'ultimo film di Heath Ledger.

(Sky tg24) A New York, dove ieri sera si è svolta l'attesissima prima di "The dark Knight, il cavaliere oscuro", nuovo episodio della saga dell'uomo pipistrello Batman. Oltre che del film, naturalmente, si è parlato di Heath Ledger e della sua interpretazione del Joker.
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Donne e governo. La Carfagna lascia, la Brambilla al posto della Prestigiacomo.

(a fianco, Silvio Berlusconi e Stefania Craxi a Parigi durante i festeggiamenti per il 14 luglio) Clamorosi retroscena dai Palazzi romani del potere. Pare proprio che il ministro Mara Carfagna - nell'occhio del ciclone nelle ultime settimane - abbia confidato a Silvio Berlusconi di essere disposta a lasciare la guida del dicastero delle Pari Opportunità. Ovviamente la decisione finale spetta al presidente del Consiglio. Ma non finisce qui.

Nei corridoi della politica romana si sussurra che il Cavaliere e il presidente della Camera Gianfranco Fini starebbero pensando di mettere Michela Vittoria Brambilla, attuale sottosegretario con delega al Turismo, al posto di Stefania Prestigiacomo al ministero dell'Ambiente. Il motivo? La bionda di Forza Italia si muoverebbe in modo "troppo autonomo", avendo riconfermato praticamente tutti i manager della precedente gestione, quella di Pecoraro Scanio. Perciò, sarebbe pronto per la Prestigiacomo un incarico in Europa, con il quale liberare la poltrona dell'Ambiente per la rossa di Lecco...

Piccolo gossip internazionale per il presidente del Consiglio. Lunedì 14 luglio a Parigi, a margine dei festeggiamenti per l'anniversario della presa della Bastiglia, Berlusconi si è appartato qualche minuto con la moglie del numero uno dell'Eliseo, Carla Bruni. Speriamo che Sarkozy non sia geloso...

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Unioni omosessuali. Il vento dello scisma sulla chiesa anglicana esiliata a Lambeth.

474 anni fa, il distacco da Roma. Oggi la chiesa inglese si riduce a “un telaio fragile” e preoccupa il Papa.
(Giulio Meotti - Il Foglio) Unioni omosessuali in chiesa bollate come “blasfeme”, comunità leggendarie come quella di George Washington che decidono di emigrare nella chiesa nigeriana, 500 prelati pronti ad abbandonare la comunione e una leadership tacciata di “apostasia”. Quattrocentosettantaquattro anni dopo l’Act of Supremacy che sancì il distacco da Roma, e la nascita della chiesa d’Inghilterra di Enrico VIII, gli anglicani sono a un passo dallo scisma. L’ala conservatrice, espressione delle comunità di Africa, Asia, Australia e Sudamerica insieme con alcune comunità statunitensi, ha deciso di marcare le distanze dai liberal, accusati di tollerare i sacerdoti gay e ordinare i vescovi donne. Lo fa annunciando il boicottaggio della conferenza di Lambeth che si tiene ogni dieci anni e che sabato aprirà i lavori. Sul Time magazine l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams ha definito la sua chiesa “un telaio fragile come mai lo è stato finora”. Forte di 11 mila sacerdoti tra cui 291 vescovi, la corrente scissionista rivendica di rappresentare 35 dei 77 milioni di anglicani di tutto il mondo.
All’origine dello strappo, la nomina a vescovo nel 2003 di Gene Robinson, omosessuale dichiarato non invitato a Lambeth, e la celebrazione di matrimoni gay in Canada e in Inghilterra. Da allora la faida sulla questione omosessuale ha finito per travolgere la “via di mezzo”, come si è sempre definita la chiesa anglicana. La vicenda avrà ripercussioni americane, dove la comunione episcopaliana, che esprime anche John McCain, è stata la prima a dividersi sulla questione gay. Due anni fa sette parrocchie della Virginia che si oppongono alla “benedizione” delle coppie gay scelsero di abbandonare la chiesa episcopaliana, quella dei Padri fondatori, quella che ha dato undici presidenti agli Stati Uniti, per entrare nella chiesa nigeriana. Due di queste comunità sono fra le più antiche d’America, Truro Church di Fairfax e Falls Church, frequentata anche dal presidente Washington. Oggi sono missioni della chiesa diretta da Peter Akinola, una sorta di “papa nero” con i suoi 18 milioni di fedeli, la più grande comunità della congregazione riformata. Un mese fa il matrimonio di due preti gay, Peter Cowell e David Lord, celebrato in aperta sfida al vescovo di Londra Richard Chartress e in una delle più gloriose chiese della capitale, Saint Bartholomew the Great, ha accelerato il processo scismatico. Sono 38 le province scissioniste, la metà delle province anglicane, in “una decisione epocale, mai vista nei cinquecento anni di storia anglicana” (così Williams). I vescovi di Uganda, Nigeria, Ruanda e di Sydney non saranno a Lambeth. Tra i primi a reagire l’arcivescovo Akinola: “Il diavolo è entrato nella chiesa”.

Prelati pronti a tornare con i “papisti”
Alasdair Milibank è un teologo e filosofo tra i maggiori del Regno Unito, un anglicano di ferro che si è formato a Cambridge alla scuola di Rowan Williams. Milibank è l’anima del movimento Radical Ortodoxy, con il quale da vent’anni ha dato vita a una battaglia per superare ogni riduzionismo secolarista della chiesa anglicana. “La conferenza di Lambeth è l’ultima chance per evitare uno scisma altrimenti certo”, dice al Foglio Milibank. “Ma forse è troppo tardi. Nella comunione anglicana tutto è ormai spaccato su linee geografiche, più che fra bianchi e neri. In Gran Bretagna è maggioritaria la posizione liberal, ma è sempre più importante quella evangelica. L’Inghilterra è un paese vittima, più che altrove, di una secolarizzazione forsennata. In Nigeria c’è una comunità conservatrice, basata sulla Bibbia e contraria all’ordinazione dei gay. Il Sud Africa è molto anglocattolico. Molto dipende da chi evangelizzò quelle terre”. Per Milibank a Lambeth sarà a giudizio l’autorità di Williams, che non fa mistero di aver ordinato in passato sacerdoti gay e propone un’analisi scritturale molto indulgente in materia. “Williams non ha più scelte. Deve cercare di puntare tutto sulla relazione con i cattolici, la ripresa del dialogo per l’unità e il rinnovamento della tradizione rappresentata da Roma. Ma deve essere più fermo anche sulla natura sacramentale della chiesa anglicana, l’idea di una chiesa scritturale. Williams è un uomo non ambizioso nella gestione del potere, ma questo è anche il suo limite nell’imporre una linea”.
Williams vede crescere l’influenza del vescovo di Rochester, Michael Nazir-Ali. “E’ un anglicano molto evangelico, ma meno cattolico di quanto si pensi, basta pensare che si rifiuta di venire a Lambeth, unico fra i britannici. Il suo obiettivo è denunciare la disintegrazione della cultura comune di matrice anglosassone. Le sue idee sono molto corrette sulla decadenza del mondo in cui viviamo, ma per lui tutto si basa sulla Scrittura. Nazir-Ali sarà decisivo nella rottura, ma non sarà in grado di assumerne la guida”. Milibank fa un pronostico. “Forse sarà leader Thomas Wright, il vescovo di Durham, è un evangelico moderato ponte tra Williams e Nazir-Ali. Sospetto un movimento enorme di rottura nella comunione, ma in futuro scomparirà. Vedremo forse una chiesa indipendente in Nigeria”. La questione anglicana è doppiamente decisiva: “Per mantenere l’unità globale dentro le differenze culturali e perché dal Concilio Vaticano II in avanti si è imposto il tema della differenza sessuale. E l’anglicanesimo è un grande laboratorio di questa dimensione”.
Nel 1994, quando la chiesa anglicana ha dato via libera all’ordinazione delle donne, la comunione perse 500 membri passati tutti al campo “papista”. Oggi la leadership di Williams non si estende oltre le province “bianche”. Negli anni Settanta c’erano cinque milioni di anglicani in Nigeria e 16 diocesi. Oggi sono 18 milioni e 80 diocesi. Nei paesi “bianchi” sono fermi a tre milioni. Quando Williams avallò la legge sulle coppie gay, Akinola abrogò dallo statuto nigeriano la frase “in comunione con Canterbury”. Henry Orombi, arcivescovo dell’Uganda, ha definito “blasfema” la cerimonia gay di Saint Bartholomew, mentre il nigeriano Akinola ha detto che la leadership è “apostata”. L’arcivesvovo di York, John Sentamu, ha paragonato Lambeth a un “parlamentino”. “E’ inaccettabile che omosessuali praticanti diventino preti” ha tuonato il vescovo di Sydney, Robert Forsyth, che incontrerà Benedetto XVI in Australia per la Giornata mondiale della gioventù.
Il vescovo anglicano di Ebbsfleet, Andrew Burnham, ha detto di voler passare alla chiesa cattolica insieme ad altri prelati. Burnham ha incontrato nei giorni scorsi il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, William Levada, e il presidente del Pontificio consiglio per l’Unità, Walter Kasper, che sarà a Lambeth. “E’ il desiderio di molti esponenti del clero anglicano che chiedono di entrare in piena comunione con la chiesa di Roma”. Stephen Parkinson, direttore di “Forward in Faith”, ha detto: “E’ la destinazione più ovvia. Nel 1992-93 molti di coloro che lasciarono la chiesa d’Inghilterra entrarono in quella romana”.
Rinomato storico della chiesa, fra i massimi esperti del Concilio Vaticano II, di cui ha curato una monumentale storia pubblicata in più lingue, Alberto Melloni vede tre aspetti fondamentali dietro a Lambeth. “Da un lato c’è la questione conciliare: Lambeth fa emergere le difficoltà dentro ogni chiesa. La composizione dei gruppi a Lambeth non è diversa da quella nella chiesa evangelica, battista o cattolica. Ci sono gruppi per i quali, davanti ai cambiamenti morali, le chiese siano obbligate a rispondere subito. Da qui il fatto di porre a tema i diritti della donna, l’eguaglianza e l’orientamento sessuale. Conservatori e aperturisti si assomigliano molto, pensano che da lì passi la credibilità della chiesa”. La seconda questione riguarda il ministero. “La questione delle donne parte da un principio conservatore di disciplina ecclesiastica: per governare la chiesa servono i vescovi. E’ la grande questione che conta più del sesso dei vescovi. Queste chiese subiscono emorragie enormi di pentecostali che rifiutano l’autorità ministeriale”.
Infine il problema dello scisma. “Dopo un secolo di ecumenismo e dopo aver fallito i grandi appuntamenti di unità, come quello 1983 con gli anglicani sui cui l’allora cardinale Joseph Ratzinger in persona si impegnò in modo contrario, le rotture sono aumentate. Quando i vescovi cambiano chiesa, intere comunità trasmigano di chiesa in chiesa. L’anglicanesimo è da sempre una via a metà fra il cattolicesimo romano e la riforma radicale. Sono state le società protestanti di Londra a immaginare l’unità delle chiese. Poi c’è la struttura di governo della chiesa come comunione di chiese locali con un governo sinodale. L’anglicanesimo è un grande sismografo per sorvegliare le tendenze contemporanee. Basta vedere il palazzo di Lambeth, con i suoi quattro pilastri che rappresentano scrittura, credo, battesimo e ministero. Lambeth è l’immagine dell’unità delle chiese”.
Il saggista cattolico Vittorio Messori ricorda che gli anglicani non hanno diritto al titolo di chiesa. “Come ha ricordato Ratzinger, è chiesa solo se ha successione apostolica. E’ una sorta di barzelletta la comunità anglicana. All’inizio era la lussuria di un re. Oggi sono una barzelletta perché la regina ha lo stesso ruolo del Papa e sulle questioni teologiche, come il peccato originale o l’immacolata concezione, ci vuole un voto dei Lord”. Per questo, aggiunge Messori, c’è continua diaspora verso Roma. “L’anglicanesimo è la Camera dei Lord in preghiera. La loro unica funzione è fare della chiacchiera sull’attualità ogni domenica mattina. Ormai fra i fedeli sono più numerosi i musulmani degli anglicani. Da questa chiesa non c’è nulla da imparare. Rincorrono le mode del mondo. E allora via, in nome della Bibbia benediciamo l’omosessualità. E’ patetica questa rincorsa che va avanti da un secolo. Il cardinale Henry Newman alla fine decise di uscire. E gli Stati Uniti non sono nati forse da coloni in fuga dall’inquisizione anglicana?”. Un pensiero, infine, sull’ecumenismo fallito. “Lo si pretende soltanto dai cattolici. L’unione sarebbe possibile, già Paolo VI li aveva implorati, ma non se gli anglicani rincorrono lo spirito del tempo. Le loro decisioni sono radicalmente antiecumeniche. Non ci si riavvicina a una chiesa che ordina sacerdoti gay e fa una lesbica vescovo. L’Inghilterra è ormai un deserto religioso”.

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California. Nozze gay in pericolo?

L'odissea matrimoniale di Divine e Molly.
(L'Unità) «La prima volta ci siamo sposate simbolicamente. Era dopo il pride del '98. Il prossimo primo settembre ci sposeremo davvero». Nel corso di dieci anni Davina e Molly, sempre indossando impeccabili abiti da spose, hanno chiesto la pubblicazione degli atti di matrimonio. «Ogni anno, il giorno di San Valentino, io e Molly, assieme a tante altre coppie gay ed etero, ci mettevamo in coda negli uffici dell'anagrafe della nostra contea di San Francisco, per richiedere il
certificato di matrimonio. Arrivato il nostro turno, la funzionaria ci guardava e ci diceva che non era possibile, perché siamo una coppia di donne. Le coppie etero ascoltavano il rifiuto e la
funzionaria arrossiva. Poi ci chiedeva scusa, imbarazzata. "mi dispiace, ma la legge non lo permette". La richiesta diventava una azione politica festosa e un po' triste. In tanti uscivamo
dall'ufficio manifestando in strada con cartelli e striscioni. E abbracciandoci anche per consolarci».

Davina Kotulsky racconta così la paziente e testarda battaglia per accedere al matrimonio in California. È raggiante ora, a pochi mesi dalla storica sentenza della Corte Suprema della California che il 15 maggio ha chiuso con il successo un decennio di impegni di tanti gay e lesbiche. Il primo settembre lei e Molly McKay si uniranno in matrimonio, così come avevano sognato. Lo avevano già fatto dieci anni fa a Wildwood Acres, con lo stesso rito, dagli anelli al party ,
assieme a 150 amici e parenti. Ma adesso la celebrazione avrà tutti gli effetti riconosciuti dalla legge.

Davina Kotulsky è una delle leader di Gaymarriage.com, una delle organizzazioni californiane che più si è battuta per il riconoscimento del «Marriage Equality», cioè del diritto per tutti di
sposarsi. Psicologa, psicoterapeuta, con una lunga esperienza di lavoro con donne maltrattate e in carcere, si è gettata a capofitto nella battaglia per i diritti civili, insieme alla sua compagna,
avvocato e attivista.

Davina, in questi giorni a Venezia per seguire un workshop su una delle poche poetesse del XVII che si esprimeva pubblicamente, ci descrive il senso della sua protesta. «La storia delle discriminazioni è lunga e dolorosa. Ed è una storia di storie. Solo fino a qualche decennio fa, coppie miste, bianche e black, non si potevano sposare. Così come in molti stati gli autobus, i ristoranti, i luoghi pubblici erano interdetti agli african-american. Se non viviamo più questa vergogna è perché migliaia di persone hanno pensato, come stiamo facendo noi una cosa semplice: "se non hai un diritto, te lo devi prendere"».

Determinata e dolcissima, Davina Kotulsky è nota negli Stati Uniti anche per un libro e un film. Il primo, «Why you shoud give a damn about gay marriage» (che suona «perché dovreste farvi un'opinione sul matrimonio gay») spiega che l'esclusione dall'istituto matrimoniale è una ferita simbolica, legale e materiale alla piena cittadinanza per la popolazione gay e lesbica. Nel film, «Freedom to marry» (di cui parliamo sopra, girato da Laurie York e Carmen Goodyear, Davina e
Molly, assieme ad altre coppie, raccontano la loro storia di vita e di amore e l'iter per sposarsi. Il film ha girato i festival di tutto il mondo, ricevendo riconoscimenti e premi (come al Los Angeles Film Festival), fino ad approdare al grande pubblico sulla Pbs, emittente largamente seguita.

La campagna per il diritto al matrimonio suscita un grande dibattito negli Stati Uniti, dove è dei singoli stati la competenza di legiferare in merito alle politiche familiari. Il quadro normativo è
complesso: soltanto il Massachussets prevede l'accesso al matrimonio, altri dieci stati hanno forme di tutele - più o meno ampie - chiamate in vari modi, unioni civili o domestic partnership. Quest'ultima è prevista anche in California, ed è riservata alle coppie gay e a quelle etero over 62 anni, per permettere anche ai partner più «anziani» di non perdere i diritti pensionistici e fiscali
acquisiti (come la reversibilità della pensione del partner deceduto). Una motivazione che in Italia susciterebbe scandalo e invettive. «La prima svolta arriva nel 2004 – prosegue Davina -.
Quando il sindaco Gavin Newsome, che già aveva partecipato ai pride e ai matrimoni simbolici, decide, con il sostegno del difensore civico di San Francisco, di cambiare i moduli di matrimonio, sostituendo le parole marito e moglie con "applicant". Termine neutro dal punto di vista del genere. Non poteva farlo, ovviamente. Ma si è preso il diritto, sfidando la legge».

Davina ricorda bene quel giorno: «Una folla enorme si accalcava alle porte del City Hall. Migliaia di coppie gay e lesbiche in fila. Molti non riuscivano nemmeno a finire la frase di rito di fronte ai
funzionari, scoppiando in lacrime. Gli stessi impiegati gridavano di gioia, assieme a parenti ed amici. La festa contagiava l'intera città». Di quella folla facevano parte anche Davina e Molly, con i loro ennesimi abiti da cerimonia: la prima in giacca e pantaloni blu, Molly con uno smagliante vestito bianco tradizionale.

Ma la Corte suprema interviene e nel giro di un mese annulla qualcosa come 3.955 matrimoni. Bisognerà aspettare altri quattro anni perché la stessa Corte, per 4 voti contro 3, capovolga il verdetto, dopo ricorsi, cause legali, manifestazioni e una carovana che da San Francisco giunge fino a Washington, toccando 13 stati. Purtroppo non è detta l'ultima parola. La strada è tutt'ora in salita. I californiani dovranno esprimersi a novembre su una proposta di referendum, «Proposition 8», che dichiara: «solo il matrimonio tra un uomo e una donna è valido e riconosciuto in California». Se passasse, nessuna legge e nessuna sentenza potrebbe più consentire il matrimonio gay. Conosciuto come il «California Marriage Protection Act», il referendum è promosso da «Protect Marriage», un'agguerrita coalizione di 34 gruppi, associazioni e 62 parrocchie e chiese locali, dove a far la parte del leone è la Conferenza episcopale
cattolica. I repubblicani sono schierati con loro, a cominciare dal candidato alla Casa Bianca MacCain. Un ruolo defilatissimo ha il Governatore Arnold Schwarzenegger, che si è detto contrario ai matrimoni gay, ma che non parteciperà alla campagna. Sul fronte opposto ci sono i democratici: il battagliero sindaco di San Francisco e soprattutto Barak Obama. Obama è contrario al referendum vista la posta in gioco, ma ha dato il proprio appoggio alle associazioni Lgbt. «Sarà una battaglia durissima - sottolinea Davina -perché la California non è S.Francisco. Ci sono 58 contee. I sondaggi ci danno in leggero vantaggio, ma il paese resta spaccato.
La California sarebbe il quarantesimo stato a blindare la propria costituzione. È un momento pericoloso, Bush vuole emendare la Costituzione proprio su questo punto. Grazie a dio se ne andrà presto». Ride Davina, poi seria aggiunge: «In 200 anni, ci sono stati solo 16 emendamenti alla Costituzione e quasi tutti per estendere i diritti, in particolare a donne e black people. Sarebbe la prima volta che verrebbe usata per scrivere una discriminazione sulla nostra carta fondamentale».

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Fuggita dalla Turchia è stata operata alle Molinette. "Io, rifugiata politica per diventare donna".

"Mia madre e le mie sorelle si sono vergognate di me, non potevo più studiare".
(Marco Accossato - La Stampa) Jasmine, finalmente, è una donna felice. Realizzata e serena, dopo essersi liberata di un corpo che non sentiva suo e di una famiglia, di un Paese, che l’hanno rifiutata e costretta a fuggire.
Soltanto la voce è quella di un tempo. Voce di donna fumatrice. Laureata in Chimica a Istanbul, rifugiata politica nel nostro Paese dal 2005, Jasmine Emily Tayfun, 36 anni, ha completato a Torino la sua trasformazione: ha cambiato sesso, ottenuto una nuova identità, conquistato un’altra vita. E’ diventata donna. Come sentiva di essere già a 20 anni, in Turchia, quando ha iniziato da sola, di nascosto, la terapia ormonale per far crescere il seno.

Dodici anni di tormenti vissuti con l’unica certezza di non voler diventare uomo e la consapevolezza di sfidare tutti, non solo la religione. Lo scontro con la realtà è stato terribile: «Mia madre, per sfuggire a una vergogna simile in un Paese che rifiuta i transessuali, appena ha visto il mio corpo cambiare mi ha portata in ospedale e lì mi hanno operata, togliendomi tutto, come avessi un cancro». Tutto, «purché tornassi piatta», purché restasse uomo fuori.

Jasmine non ha accettato, «ho sofferto moltissimo, ma non ho potuto oppormi». Finché a 29 anni ha trovato la forza di fare le valige: ha lasciato il proprio Paese dopo la laurea ed è partita per l’Olanda. E di qui in Italia, dove è stata indirizzata alla Clinica urologica diretta dal professor Dario Fontana, che negli ultimi tre anni ha eseguito trenta interventi identici, trasformazioni da uomo a donna (28 casi) e da donna a uomo (2 casi).

Padre pensionato, madre agguerrita contro il suo desiderio di diventare donna, Jasmine ha vissuto anche il trauma del rifiuto delle sorelle, che non hanno mai appoggiato la sua scelta: «La più grande, che ha 33 anni e vive in Germania - dice Jasmine - ripete ancora oggi che non avrà mai il coraggio di presentarmi al suo fidanzato. Che si vergogna di me e della mia trasformazione».
Jasmine è una donna forte. Ha resistito a chi si opponeva e non è caduta nella trappola della prostituzione, per ottenere i soldi necessari a scappare: «Le umiliazioni - ricordano - non erano solo quelle in casa: all’Università i professori mi dicevano che con il seno non avrei più potuto entrare in aula. Che non mi avrebbero più permesso di studiare. Anche la polizia, quando mi fermava in strada, mi maltrattava».

Jasmine è riuscita a completare gli studi, ha persino insegnato Chimica in una città ad Est della Turchia. Ma il suo sogno, il suo primo e unico desiderio, si è realizzato il giorno in cui è partita per arrivare in Italia: «A Roma ho conosciuto don Ciotti e l’associazione Libera. Mi hanno accolta senza giudicarmi. Mi hanno aiutata a trovare una casa, e soprattutto a non vergognarmi, ad andare avanti».

Il tribunale ha detto sì. In Italia il cambiamento di sesso è regolamentato dalla legge, poiché l’asportazione degli organi della riproduzione è vietata, senza patologie. Ma non c’è stato alcun ostacolo: Jasmine è stata portata in sala operatoria per un intervento durato cinque ore. I suoi organi, ora, sono quelli di una donna. Fiera di dirlo: «In Italia sono rinata».

L’intervento è stato eseguito dall’équipe della seconda clinica urologica alle Molinette, diretta dal professor Dario Fontana. Ma Jasmine è stata seguita anche dagli specialisti dell’Endocrinologia diretta dal professor Ezio Ghigo e da quelli della clinica psichiatrica del professor Filippo Bogetto. «Mia madre e le mie sorelle non sanno ancora dell’operazione. E non lo sapranno finché non avrò ottenuto la cittadinanza italiana e la riconversione della laurea». Soltanto allora sarà iniziata pienamente la sua seconda vita.

Il centro
Il Centro Interdipartimentale per i Disturbi dell’Identità di Genere, alle Molinette, ha compiuto tre anni e ha ottenuto ieri il riconoscimento di centro di riferimento regionale. Ha permesso a molte persone provenienti da diversi Paesi del mondo di realizzare il sogno di cambiare sesso. Le sale operatorie sono state visitate da chirurghi francesi, americani, inglesi, iraniani e ogni anno gli interventi vengono seguiti dagli urologi che frequentano il Master universitario di Andrologia diretto dal dottor Luigi Rolle.

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L’Authorithy: “Rai da riformare subito. E basta ai processi in tv”.

(Panorama) Non più rinviabile. La riforma della Rai va fatta subito, perché l’azienda non può competere “impacciata” dalle norme amministrativo-contabili e “paralizzata da spinte e controspinte politiche”. Chiaro e secco, ecco il monito del presidente dell’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni, Corrado Calabrò, che nella Relazione annuale al Parlamento avanza l’ipotesi di un provvedimento ad hoc per cambiare la governance della tv pubblica. Calabrò chiede che “alla riforma della Rai si arrivi al più presto, puntando sull’efficienza” e coniugando “il carattere imprenditoriale della governance con il perseguimento degli obiettivi di fondo di un servizio pubblico con marcate finalità d’interesse generale, svincolato dall’abbraccio dei partiti”.
Tra i principali compiti della Rai c’è il recupero della qualità, secondo Calabrò, che cita l’esempio positivo della Bbc: la nostra tv pubblica si è infatti appiattita sulla tv commerciale, con una “omologazione al ribasso che sbiadisce la missione del servizio pubblico e colloca la nostra televisione al di sotto di altre televisioni europee”. “Il contratto di servizio con la Rai” ricorda Calabrò nella Relazione “prevede l’elevazione della qualità, e si è insediato l’apposito Comitato chiamato a monitorare l’osservanza di quella indicazione”.
Ricerca di qualità che l’azienda di Viale Mazzini deve riprendere, abbandonando la “mimesi del processo” televisivo, con schemi, riti e tesi tipicamente processuali. “La giustizia viene percepita soprattutto per come appare, ed essa appare per come è rappresentata dai media”. E così finisce che dall’informazione sul processo, giustificata dal diritto di cronaca, si è passati al “processo celebrato nei mezzi di informazione: un’aula mediatica che si costituisce come foro alternativo, un modo onnivoro di raccogliere ogni conoscenza che arriva a un microfono e a una telecamera”. Per Calabrò, il paradosso è che in tale dinamica “è la sentenza pronunciata nel processo vero a risultare la meno attendibile e comunque tardiva”, perché l’opinione pubblica ha invece già registrato come “vera” la sentenza “subliminalmente propinata dal mezzo audiovisivo”.
Parlando poi dell’evoluzione del settore tv Calabrò afferma che si sta passando dal duopolio, che ancora caratterizza la distribuzione degli ascolti, al “mercato a tre” (formato da Rai, Mediaset e Sky) grazie alla crescita del satellite: “permane la concentrazione binomiale di emittenti per quanto riguarda l’audience” (Rai e Mediaset sono all’82.3% e raggiungono insieme l’84.1% dei ricavi nel mercato della raccolta pubblicitaria), ma “in un assetto economico complessivo che vede ormai tre soggetti in posizioni comparabili, per il ruolo sempre crescente assunto da Sky Italia”. Nel 2007 la Rai ha registrato ricavi per 2.739 milioni di euro, Rti per 2.411 milioni, Sky per 2.347 milioni. Fatturati che, fa notare l’Autorità, si riferiscono al mercato italiano e prendono in considerazione solo ricavi netti da pubblicità e pay tv.
Nell’ultimo anno, sottolinea Calabrò nella Relazione, si sono registrati “un ulteriore consolidamento del peso della televisione a pagamento rispetto all’ammontare complessivo delle risorse del settore, un rafforzamento delle nuove piattaforme digitali, satellitare e terrestre, a scapito della tv analogica (con oltre metà delle famiglie, il 54.3%, dotate di tv digitale), un aumento della pressione competitiva determinato da un processo di transfluenza che vede le televisioni tradizionalmente free fare il loro ingresso nella tv a pagamento e l’acquisto di crescenti quote di mercato pubblicitario da parte degli operatori di pay tv”.
Ma, ricorda l’Autorità delle telecomunicazioni, “l’auspicio è che entro i prossimi 24 mesi oltre la metà della popolazione italiana possa fruire del passaggio al digitale”. Il che, scandisce Calabrò, “può rappresentare una svolta”. In particolare, il presidente dell’Autorità si riferisce “alla gara per l’assegnazione del 40% della capacità trasmissiva dei maggiori broadcaster integrati (Rai, Mediaset e Telecom Italia)”: “Siamo ormai alle battute finali della procedura di selezione ad evidenza pubblica, che ha visto la presentazione di 25 domande da parte di 18 soggetti (molti stranieri)”, spiega. E, ancora, “per la normalizzazione del mercato sarebbe opportuno, come ho già segnalato nella passata legislaturaa, sopprimere la tassa di concessione governativa sugli abbonamenti”, conclude Calabrò.
Intanto, oltre alla riforma del sistema televisivo pubblico, va riscritta anche la legge sulla par condicio, “per adeguare la legge sia alla realtà cui intendeva riferirsi sia al mutamento tecnologico intervenuto”. Valutazioni che Calabrò fa alla luce delle “difficoltà riscontrate nell’applicazione” della normativa vigente in occasione delle ultime elezioni politiche e del fatto che, nonostante il proliferare dei nuovi media, “la campagna elettorale si fa ancora quasi interamente in televisione”. L’Autorità, spiega Calabrò, si è trovata di fronte a uno scenario “ben diverso da quello presupposto dalle leggi da applicare, vale a dire la convergenza degli attori della campagna elettorale su due coalizioni”, dovendo gestire “diciotto liste in competizione e quindici candidati premier che reclamavano tutti uguale spazio in televisione e confronti incrociati”.
L’Autorità, poi, “darà puntuale esecuzione - nei limiti della sua competenza - alle sentenze del Consiglio di Stato del 6 maggio di quest’anno sui ricorsi proposti da Europa 7 e fornirà supporto tecnico al Ministero dello sviluppo economico per gli adempimenti ad esso demandati”.

Dalla relazione del presidente Agcom emerge nuovamente la passione degli italiani per la telefonia mobile. “Lo sviluppo delle settore delle tlc - ha spiegato Calabrò - è stato, fino a tempi recentissimi, a getto continuo”. Secondo le rilevazioni dell’Autorità “siamo all’avanguardia nell’innovazione ed evoluzione tecnologica e nelle offerte innovative. Al primo posto in Europa e al secondo nel mondo per diffusione dei servizi mobili di terza generazione; leader mondiale nel mercato dei contenuti e servizi per la telefonia mobile (con un fatturato di 1,2 miliardi di euro e un tasso di crescita del 15%, quasi invariato rispetto al 2006) e in particolare per la televisione su cellulare”. “L’espansione del settore tlc con le vecchie tecnologie, che pure ha registrato tanti successi, è ormai giunta al capolinea” chiude Calabrò, secondo il quale “senza il passaggio alla banda larga il digital divide” si estenderà.
Telecom Italia mantiene il suo primato storico di ex monopolista nella telefonia fissa, ma negli ultimi tre anni la sua quota di mercato è scesa di 10 punti, dal 94 all’84%, rimanendo ciò nonostante più elevata che altrove. Tracciando il bilancio del fisso nell’ultimo triennio, dove la quota dell’84% attribuita a Telecom è riferita alla linee di accesso alla rete fissa (nella spesa totale la quota dell’operatore è invece del 70%, nei ricavi da servizi voce del 76%), Calabrò ha spiegato che in parallelo vi è stato “un deciso recupero di redditività degli operatori alternativi a Telecom, con incrementi che arrivano al 60%”.

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Malaysia. La polizia davanti al Parlamento per fermare il leader dell'opposizione Anwar Ibrahim, accusato di sodomia.

(Peace Reporter) La polizia malese ha circondato oggi il Parlamento di Kuala Lumpur con l'obiettivo di impedire al leader dell'opposizione Anwar Ibrahim e ai suoi sostenitori, di partecipare a una seduta nell'aula.
Ad Anwar, recentemente accusato per la seconda volta di sodomia - un reato in Malaysia - una corte ha proibito di avvicinarsi a meno di tre miglia dal Parlamento, impedendogli così partecipare a un dibattito parlamentare sulla "crisi di fiducia nel governo", che l'opposizione vorrebbe introdurre nella seduta di oggi. Attualmente Anwar non detiene un seggio in Parlamento. Secondo il deputato dell'opposizione Azmin Ali, non c'era il piano di creare "il caos", e l'imponente operazione di sicurezza attorno all'edificio rappresenta "una provocazione malvagia per impaurire la popolazione". Dieci anni fa, Anwar riuscì a mettere insieme delle grandi manifestazioni di protesta popolari contro il governo.
La tensione in Malaysia è aumentata dalle elezioni dello scorso 8 marzo, quando la coalizione al governo dagli anni Cinquanta, rappresentante della maggioranza di etnia malese, ha visto diminuire pericolosamente il margine di vantaggio sull'opposizione, ridotto ora a 30 seggi di vantaggio sui 222 del Parlamento. Da allora, Anwar ha lanciato una campagna per far cadere il governo di Abdullah Badawi, e diversi deputati del partito di maggioranza Umno hanno cambiato sponda.

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Lo scandalo del "festival" del sesso orale a Zante. I video in rete.

C'è un gran daffare in rete per recuperare quei video che testimoniano la notizia data ieri e relativa alla gara di "blow-job" tenutasi a Zante (isola particolarmente cara alla cultura italiana, il Foscolo, De Chirico, ecc.) che alcune prostitute, ingaggiate appositamente per l'evento a Londra, hanno dato vita in Grecia. E' caccia anche ai nomi delle partecipanti come testimonia la manchette qui sotto e pubblicato dal giornale scandalistico The Sun.
Intanto in redazione ci sono giunte alcune segnalazioni che vi sottoponiamo.
Questi i video che ci hanno segnalato e questi noi vi giriamo se poi siano quelli originali o delle bufale non possiamo saperlo, un'occhiata comunque vale la pena darla...
Buona visione.

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The telegraph: I mafiosi gay hanno troppa paura di venire allo scoperto.

I capomafia gay hanno paura di venire allo scoperto temendo di venire ridicolizzati o uccisi, dice un pm antimafia.
(Daily Telegraph |via Che cosa dicono noi) Antonio Ingroia, che ha aiutato ad assicurare alla giustizia parecchi boss, dice: "Essere gay é ancora un tabú per la societá italiana in generale, figuriamoci per la mafia, che é un'organizzazione arcaica. "Questi boss devono nascondere la loro omosessualitá; hanno paura perché rischiano di venire ridicolizzati ed uccisi."
Ingroia dice che la mafia americana ha "piú larghe vedute sui gay e quindi i boss gay possono venire fuori."
I tempi sono senz'altro cambiati. Nel 2003, un pentito dichiaró in un processo a New York che il capomafia gay, sulla cui famiglia é basata la serie dei Soprano, fu ucciso dai suoi stessi uomini perché questi temevano che la famiglia diventasse ridicola agli occhi del mondo nascosto della criminalitá organizzata.
Anthony Capo disse al processo: "Nessuno ci rispetterá se abbiamo un boss gay omosessuale che si siede a discutere sui business di Cosa Nostra."

John "Johnny Boy" D'Amato (a fianco), capo della famiglia De Cavalcante, la piú grande nello stato del New Jersey, fu ucciso a colpi d'arma da fuoco nel 1992 in seguito alle dicerie sul fatto che avesse relazioni con altri uomini.
Capo disse alla corte: "Fu uno shock per me che potesse comportarsi in quel modo - era un vero leader."
Ingroia, che opera a Palermo, la roccaforte della mafia siciliana, ha anche invitato il papa Benedetto XVI a prendere posizioni piú dure contro la mafia.
Il suo predecessore, Giovanni Paolo II, é vivamente ricordato per le sue condanne contro la mafia, il cui esempio piú significativo fu una visita in Sicilia nel 1993, quando avvisó i suoi membri che anche loro, un giorno, avrebbero "affrontato il giudizio divino".

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