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martedì 9 ottobre 2007

"Le donne sono affascinate dai froci come le vittime da Dracula" (Oliviero Toscani).

(Pietrangelo Buttafuoco - Panorama) Un omone di un metro e 80, anzi 90. Ha un vocione con cui sposta questo e quello. «Sono una one man band» dice di sé. In quella scienza mistica e dadaista che è l'olivierotoscanologia, della quale lui è l'aitante e l'agile budda, il far da sé con talento è anche «kalyuga», ossia sovversione portata a termine con metodo.

È una disciplina attraverso la quale i passanti, i lettori, i telespettatori e tutti i consumatori bevono l'amaro calice dell'anoressia sotto forma di modella che però s'è mangiata la carne addosso, tanto era sazia lei (e con lei sazi noi che la guardiamo). Oliviero Toscani allora, il fotografo. «Soffriamo tutti di anoressia. Nell'anoressia, infatti, vediamo un autoritratto. La paura di non avere soldi è anoressia, il non avere merce da vendere è anoressia, così come non sapersi dare, il sentirsi mai all'altezza della realtà è anoressia».

Il vocione si fa tuono: «Tutti noi siamo anoressici di potere, di bellezza, di paternità, di maternità. Il governo stesso si sentirà anoressico così come, al contrario, Berlusconi, in mancanza di maggioranza parlamentare, risulterà anoressico a se stesso». L'anoressia è lo spirito del tempo amplificata dalla moda. L'anoressia, infatti, «fa vendere, la moda è la trappola più ovvia, ma non parlerei di responsabilità del glamour, piuttosto di collaborazionismo della moda anche se poi bisogna dirlo: siamo tutti dei collabò».
La religione dell'anoressia è il nuovo esistenzialismo? «L'anoressia è sicuramente la rappresentazione della nostra insicurezza, è uno stato di paura che ci sovrasta e che ci gratifica al contempo. È sufficiente leggere i richiami di copertina dei magazine femminili per averne prova. Sono sempre uguali e avranno per sempre gli stessi argomenti: orgasmo, come ottenerlo; poi chirurgia estetica, top model, vip e dieta».
La dittatura dell'anoressia si accompagna alla religione totalitaria della moda. Più feroce casta dei sarti d'alto bordo non ce n'è, infatti. Si può fare tutta l'informazione, dalla politica alla finanza, dalla mafia al business dello spettacolo, eccetto che sulla moda: il regno impassibile della marchetta.

«Ma questo succede a causa della nostra condizione piccina: l'Italia è solo una botteguccia di borse, scarpette e vestitini. Siamo il vero Terzo mondo, una volta si veniva in Italia per Giotto e Mantegna, adesso per fare shopping e trovare le scarpe, ovvio che domini il culto del vestitino, non a caso sono partito dalla Settimana della moda anche se la riflessione su questo tema la covo da tempo. Feci anche un film, "Chiara a sedici anni", una confessione sull'anoressia, perché c'è un po' di sovversione nell'anoressia... È un moto di resistenza contro quello che la moda decide di fare».
Il budda dal sorriso italiano è un modello riuscito di artista plurale, meticcio per davvero, perfettamente in grado di assolvere la preghiera quotidiana della lettura dei giornali attraverso le cinque lingue di cui è padrone. «Io sono ignorante, non compro settimanali, io leggo solo quotidiani. La "Frankfurter Allgemeine Zeitung" il "New York Times", "El Mundo", "La Repubblica", "le Monde". Se non li trovo in edicola me li leggo via web. Si può fare arte anche col giornalismo, sai?

Prendi "La Repubblica", il nostro Francesco Merlo fa sicuramente arte lì, ma Eugenio Scalfari proprio no. Dirà anche cose condivisibili Scalfari, ma non sa scrivere, faccio fatica a capirlo, affoga tutte le cose buone nella sua prosa. Il giornalismo è come la fotografia: hai voglia a comprare sempre nuove macchine fotografiche, se manca il talento è inutile, l'assenza di talento ammazza anche la notizia. È come nei reportage di guerra. Troppo facile il reportage, arrivi dove si scannano, trovi il sangue, i morti, scatti foto dappertutto e l'impaginato è bello che fatto. La vera difficoltà sta nel fare un reportage di guerra su un fondo bianco, anzi un film di guerra su un fondo bianco. Il racconto della guerra in Iugoslavia lo feci con una T-shirt».
L'occhio dell'omone di un metro e 80, anzi 90, frigge nella riflessione: «Io non guardo, immagino. E di conseguenza leggo. Sono un grande lettore di Emil Cioran, lo trovo perfino comico, la lettura ci porta alla realtà. Se vuoi sapere cosa succede in Togo, devi leggere i quotidiani, il telegiornale non ti dirà mai cosa succede in Togo. La televisione è buona per i ciechi all'incontrario, noi. Gli orbi s'aiutano col bastone, noi con la televisione. Ecco, la tv uccide l'immaginazione. L'immaginare delle immagini è, invece, una gioia attiva dell'intelligenza, il giornalismo di Giorgio Pecorini, il fiutare la grazia dell'improvvisamente, il cambiare, l'andare, il fare qualcos'altro. Come si fa a non amare Giorgio Bocca quando spiega agli amici il vero motivo che lo portò sull'altopiano?».
Ecco, qui l'omone tradisce tutto l'affetto e tutta la benedizione per quella vita che sa tenersi alla larga dalle truffe etiche: «Lo spiegava così, Bocca: "Sapete perché sono andato nella Resistenza?" diceva "perché c'era una ragazza che me la dava". Mi sta bene che ci sia andato per seguire una fanciulla, lo dico con convinzione perché bisogna stare sempre attenti agli eroi».

Oliviero Toscani non è precisamente il tipo alla Rosmini-Gioberti-Galluppi, la triade della pedagogia nazionale, ma più che pedagogo lui è: «Sono una one man band, è vero, ma ho tutta una serie di sensori sparsi ovunque. Mi attornio di collaboratori, tutti giovanissimi, tutti al primo lavoro, e se sono bravi li voglio subito alla prova. Devono fare i maestri. Li tratto male, gli voglio un bene dell'accidente, ma devono sudare per il loro stesso piacere e la loro gratificazione. Io sono un terribile domatore di talenti altrui: li fustigo, li ammazzo, e se ne trovo di bravi sono io che vado a scuola da loro».
Tra questi ragazzi che Toscani mette alla prova c'è anche il figlio Rocco: «Povero figlio mio, ha una pazienza con me... Ha fatto la mia stessa scuola, ma a Chicago, non a Zurigo. Quando la Bauhaus ha lasciato la Germania la Kunstgewerbeschule s'è divisa tra queste due sedi».
Padri e figli. La storia di Oliviero Toscani è quella di suo padre, Fedele Toscani, il primo fotoreporter del "Corriere della sera" (la famosa foto di Indro Montanelli con la Lettera 22 Olivetti è sua, la famosa foto della macelleria di piazzale Loreto è sua). E certamente c'è l'arte che gli è stata messa in mano già da bambino, nel suo apice ha rotto con la moda con l'aria di quello che non le manda a dire: «Non sono una dama di compagnia».

La storia di Toscani è stata anche quella dell'incontro con un geniale e abbastanza ignorante Luciano Benetton e il famoso bacio delle suore, ancora più indietro nel tempo il celebre «Chi mi ama mi segua», il motto incollato sulle più belle natiche di femmina, quelle di una delle sue mogli. Ha conosciuto tutto e tutti, da Mick Jagger ad Andy Warhol. È uno che non se la tira. Non potrebbe mai fotografare le donne di spettacolo, direbbe loro: «Sembri un puttanone, vatti a cambiare, togli il rossetto, scendi dai tacchi». Per lui Jennifer Lopez è solo una ballerina cubana, non una diva.
Smitizza i personaggi Toscani, a differenza degli icon maker, i fabbricatori di icone, i modelli delle sue campagne di comunicazione se li va a prendere per strada. Oppure nel braccio della morte, come con i condannati che si sono offerti al suo clic. Ne fece un crudele catalogo di moda. Ha messo in piedi un laboratorio di comunicazione, "La sterpaia", a San Rossore.
Non scatta solo foto Toscani, ovvio, non c'è un solo giorno in cui lui non sia da qualche parte a fare quello che sa: immaginare. Così a Berlino, in Giappone per la Toyota, o a Parigi, dove lavora per Libération, dove pure ha seguito e consigliato la molto avvenente Ségolène Royal. Ha fatto anche un numero di Colours, la sua rivista, tutto dedicato alla cacca. Ha studiato la campagna elettorale di Dario Fo candidato sindaco di Milano, ha inventato anche quella dell'Inter, candidata al campionato, si occupa del vino Bellavista, fa etichette, tra i suoi clienti ha la Miscela d'oro, un caffè di Messina.

La sua idea è creare più sterpaglie in Italia, un network, laboratori della comunicazione messi ovunque, su cui buttare un occhio che non guarda ma immagina, immagina di immaginare sempre nuove visioni. E per fortuna ha la moglie, Kisti, la sua terza, amministratore delegato del tutto. L'occhio che non guarda e immagina vive in una fattoria. Due ruderi che prese negli anni Settanta, a Casale Marittimo, una fattoria autonoma in Toscana dove con polli, mucche, cavalli e trattori (il contadino gli ha tirato via il cavo Telecom con l'erpice) Toscani sta per lanciare un suo vino. Ex capellone, ex ragazzo beat, non trascina le masse (tanto è vero che sia Ségolène sia Dario Fo lì sono rimasti) ma segna un'epoca.

Si compiace, certo, ma fa parte del mestiere. Ed è un provocatore, anche se non fa parte del mestiere. Dell'uso della fotografia d'arte fa strame. Helmut Newton per esempio, l'erotismo al livello del massimo artificio: «È come una grande scorreggia, solo una grande puzza e niente dentro. Richard Avedon piuttosto, l'unico che ha saputo fotografare la nostra nevrosi».
L'occhio che immagina cerca le donne: «Noi uomini normali e banali non abbiamo lo sguardo degli omosessuali, sempre troppo cattivi con le donne. Noi normali e banali cerchiamo la curva, io sono cresciuto viaggiando per il mondo palpando le donne, loro invece vestono degli stecchini, come gli architetti cattivi che fanno palazzi pieni di spigoli. Per gli omosessuali la donna è uno strano punto di riferimento, e le donne, a loro volta, sono affascinate dai froci come le vittime da Dracula. Ora non è perché uno è frocio debba avere ragione, il giorno in cui potremo dare dello stronzo a un negro avremo anche chiuso con il razzismo.

Diciamolo allora: esiste questa cattiveria degli omosessuali contro le donne, fanno a loro da dama di compagnia, da soprammobile, le vogliono tali e quali alle Barbie con cui avrebbero voluto giocare da piccoli. La donna, invece, è un incredibile racconto della qualità, è quella curva, il mistero, quello che noi uomini cerchiamo. Il corpo della donna è il futuro, cosa possono capirne i designer che hanno rinnegato la linea curva? Una macchina che è vera macchina è la Porsche 550 Rs, un meraviglioso uovo schiacciato, la Ferrari, in confronto, sembra un condizionatore d'aria».
Un omone tutto arte e libero discorrere il Toscani. «L'arte deve sorprendere. Lo capii da ragazzino. Mia sorella maggiore di 11 anni mi spedì una cartolina con dentro una piazza di De Chirico. Scioccato, capii che l'arte doveva fare solo questo: comunicazione, comunicazione, comunicazione. Come nella scrittura, così nell'espressione pittorica. Concetto e immaginazione del concetto. E così il grande lavoro è fatto. Sono molto pignolo io, nessun dettaglio è piccolo. Prendi questa ragazza della campagna sull'anoressia. C'è da cogliere l'attimo della seduzione, un ultimo sprazzo, una spavalderia che lei stessa suggerisce. Si gira di schiena, seguimi, sembra dire». Nolita è un richiamo a Nonita, la parodia di Lolita fatta da Umberto Eco? «Certo, c'è anche quel richiamo. No-li-ta».
Occhio che non guarda e immagina è padrone di felicità a casa sua. «Cosa c'è di più bello dello stare a casa? Solo gli sfigati hanno bisogno di trovarsi dei posti dove andare. Io le vacanze me le faccio a casa». Occhio che immagina è l'immagine dell'uomo che a un certo punto si rompe a far flanella tra le trappole del glamour e indossa gli stivali da consorzio agrario.
Tutti ne dicono un gran bene, dell'Oliviero: «Spero siano tutte donne» dice lui. E Toscani è proprio un gattone che sa arraffare la vita: «For-tu-na-to, io sono un fortunato. Ho 65 anni, mi tira ancora l'uccello, ho avuto un culo incredibile nella vita, sono nato al momento giusto, avevo 18 anni negli anni Sessanta, sono coetaneo di Bob Dylan. Ho avuto delle donne fantastiche, mai vittime della moda. Ho lavorato nel migliore dei modi facendo un mestiere dove sono in tanti quelli che si alzano la mattina e, zac, decidono di fare il fotografo. Un ignorante qui, in questo mestiere, senza cultura come me, diventa il testimone della memoria. Noi siamo quello che siamo perché restiamo appesi nella fotografia. Per questo i nonni sembrano sempre vecchi, per via della fotografia che ce li ricorda così».

L'occhio dell'omone immagina di stare davanti a due porte dove può scegliere di far uscire da una l'Onnipotente Iddio, dall'altra il Demonio. «Il diavolo, ah!, poterlo fermare in un'istantanea». L'occhio che immagina mette le mani avanti sulla dura materia utile e dilettevole dell'arte, della provocazione, della politica e, dunque, «della sovversione della quale mi piacerebbe tenere cattedra all'università, naturalmente a Milano che era una gran bella città prima che voi terroni, tristi, grondanti di sangue, ce la rovinaste». Il tono è sornione: «Però il nostro amico, il professore Tino Vittorio, lo vorrei proprio, lo togliamo da Catania e lo facciamo associato alla Cattedra di Sovversione».

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