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mercoledì 2 gennaio 2008

Babilonia e le altre: cinque mostre evento del 2008.

(Marco Di Capua - Panorama) L’evento si annuncia maestoso. E benché a prima vista la scena sembri remota, coperta da una leggendaria sabbia di deserto, poi capisci che ci riguarda molto da vicino. In effetti Babylon, la mostra post-trans-archeologica che si apre al Museo del Louvre di Parigi dal 14 marzo al 2 giugno, simbolicamente ci mette in scena con una certa precisione, provando, se mai ve ne fosse ancora bisogno, che la storia è un cerchio e non una linea retta.

Insomma, qui si narra di Babilonia, l’antica città della Mesopotamia che sorgeva sul fiume Eufrate a qualche decina di chilometri da Baghdad. Al centro di Babilonia Erodoto descrisse una torre, e quella torre nella Genesi è detto che fosse voluta, dopo il Diluvio, dall’orgoglio e dal desiderio di potenza degli uomini, cosicché Dio li punì, facendo loro parlare migliaia di lingue diverse: finirono col non capirsi più gli uni con gli altri. Bella storia, vi dice vagamente qualcosa?
Curata da Béatrice André-Salvini, l’esposizione è una grandiosa combinazione di reperti oggettivi, nelle tappe fondatrici dell’antica città, e di pure visioni di una Babilonia immaginaria. Per dire: qui le fatiche dell’archeologo tedesco Koldewey, che alla fine dell’Ottocento disseppellì la città di Nabucodonosor II, servono da fonte per un racconto fantastico alla Jorge Luis Borges.
Così l’epopea della civiltà babilonese è rappresentata da steli, statue, papiri, manoscritti, tavolette cuneiformi, accanto alla sua individuazione come luogo mitico, con miniature, disegni, quadri. Stupendi i fiamminghi che ebbero in sogno la Torre di Babele, le sue sette terrazze digradanti, di diverso colore.
Più che sognare, si divertirono un mondo i tre geniali moschettieri del Dadaismo, Marcel Duchamp, Man Ray, Francis Picabia: la Tate Modern di Londra li presenta in blocco, in una mostra che si apre il 21 febbraio, si chiude il 26 maggio e si annuncia allegramente sorprendente.
Dipinti, collage, “oggetti trovati” subito dichiarati opere d’arte, fotografie e film raccolgono l’aria di una stagione di grazia che, rivista al suo stato nascente, funziona ancora benissimo. Voglio dire quella roba lì, i giochi e le invenzioni, il gusto per la sperimentazione, tra sense of humour e nonsense, un’etichetta scoperta aprendo a caso il vocabolario (Dada: cavalluccio a dondolo) in un ispirato giorno zurighese del 1916, e poi, che so, l’Orinatoio di Duchamp, i ferri da stiro chiodati e le stampelle di Man Ray, i quadri danzanti di Picabia, e l’energia che li sintonizzò tutti sulle medesime onde di frequenza: non c’è trasgressione attuale, diventata di massa e obbligatoria, che ce li possa rovinare. Quel bel terzetto di spiritosi diffuse Dada in America: il gesto anarchico diventò democratico. Diventò Pop.
Proprio gli Stati Uniti, a New York il Metropolitan, propongono dal 27 febbraio al 18 maggio una completa retrospettiva di Gustave Courbet: 100 opere superbe di un pittore che della passione per la democrazia fece un palcoscenico per il proprio enorme talento. E per la propria vanità.
Francese, originario di Ornans, Courbet (1819-1877) entra con passo narciso e deciso nella storia dell’arte come il padre del Realismo. Nei suoi quadri la percezione di una natura potente e sgarbata è sventolata come uno stendardo polemico contro la città. Parigi diventa tuttavia il teatro d’azione per questo egotico e polemico precursore di ogni artista star: è lui che si fa un vanto dello scalpore che la brutalità delle sue opere suscita. È lui che, con un infallibile istinto di autopromozione espone al pubblico ludibrio i suoi quadri nei salon ufficiali e, contemporaneamente, in uno spazio tutto per sé che intitola al Realismo. Nel trionfo monumentale di operai e contadini, nella fisicità di prostitute accaldate in riva alla Senna, e di animali, rocce e alberi, c’è l’indizio di quella «volontà selvaggia» e di quell’«energia distruttrice di facoltà» di cui, non senza ammirazione, parlava Charles Baudelaire.
Nulla a confronto della spettacolare violenza pittorica che corre sulla linea B dell’angoscia e dell’irrequietezza novecentesche: cioè nelle prossime antologiche italiane dedicate a Francis Bacon e Georg Baselitz. A 10 anni dalla sua ultima mostra in Italia, il Madre di Napoli presenterà (17 maggio - 15 settembre) Georg Baselitz: 88 lavori selezionati in tutto il mondo da Norman Rosenthal, tra quadri, sculture e disegni (Catalogo Electa).
Lui in realtà si chiamerebbe Kern, ma cambia nome quando, espulso da Berlino Est a 18 anni, approda all’Ovest. Decide allora di prendere un suo nome d’arte dalla città dov’è nato nel 1938, Deutschbaselitz, in Sassonia. Funziona come una specie di ancora, di semplice radice dichiarata.
Le sue opere sono essenzialmente campi d’azione pittorica, un’overdose di stimolazioni ottiche. Larghe, potenti pennellate di colori accesi, l’esibizione eloquente di chi si richiama, come si trattasse della sua madrelingua, ai segni dell’Espressionismo tedesco, creano intensissime atmosfere emozionali. Ogni artista contemporaneo impone un tratto, decide un’azione, che lo distingua da tutti gli altri. Quello di Baselitz, a un certo punto, è stato di capovolgere le sue figure. Se ci pensi, un gesto semplice. Bastava pensarci. Un mondo di capoccioni a testa in giù vi guarda, e silenziosamente grida, dai suoi dipinti.
Gridano anche certe figure di Bacon (Dublino 1909 - Madrid 1992), ma quella lì non è gente qualunque. Quelli sono addirittura dei papi. Ogni mostra di Bacon è un evento. E di certo lo sarà anche quella che si apre a Palazzo Reale di Milano dal 4 marzo al 29 giugno. A cura di Rudy Chiappini sono stati scelti 50 dipinti ad alto impatto storico e qualitativo (catalogo Skira). Nel senso che l’intenzione è proprio quella di fornire una visione complessiva dell’opera di colui che, senza dubbio, è stato il più grande artista inglese del ‘900.
A proposito: niente Irlanda, niente gente di Dublino, insomma niente James Joyce. Bacon, il quale pare discendesse dal celebre filosofo-scienziato elisabettiano, si sentiva inglese purosangue.
Indimenticabili le Teste (1949) di questo fedele al volto, benché Bacon quel volto lo sfigurasse, ne contorcesse i lineamenti. Ecco il corpo battuto come fosse in gabbia, il corpo in una stanza, minimo campo di concentramento esistenziale per figure solitarie, papi urlanti, colluttazioni furibonde, nell’impassibile calma di interiors dal design implacabilmente perfetto.
Sempre la figura, perché senza l’uomo non vale la pena. Tranne forse una sola volta: non c’è nulla, soltanto blood on the floor, una pozza di sangue sul pavimento.

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