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giovedì 26 giugno 2008

Dal New York Times uno sguardo critico sull’Italia e la diversità culturale.

newyorktimes

(Simona Cantoni - Panorama) Se vale l’espressione di Oscar Wilde “Bene o male purché se ne parli”, allora nel Bel Paese dovremmo essere contenti: l’Italia è infatti argomento d’interesse per il New York Times, il prestigioso quotidiano americano (in apertura della versione on line nel primo pomeriggio del 25 giugno). Ancora una volta siamo sotto la sua lente critica e attenta. Sono oggetto di un’analisi precisa quanto pungente i nostri sforzi con la “diversità culturale”. Ovvero, la difficile convivenza italiana con l’immigrazione.

Una mostra sull’arte indiana, che si tiene a Roma al Museo preistorico etnografico Pigorini, è il la per parlare di integrazione. E non solo. “L’ultimo governo italiano è salito al potere due mesi fa con la promessa di bloccare gli stranieri illegali, che chi è avverso all’immigrazione vede associati alla criminalità. Lo scorso mese la polizia italiana ha arrestato centinaia di immigrati che vivevano in baraccopoli, e vicino Napoli sono stati assaliti campi rom in seguito a un tentativo di rapimento di una bambina da parte di una zingara” scrive Michael Kimmelman.
E ancora: “L’estrema destra del governo Berlusconi ha appena proposto una delle leggi sull’immigrazione più rigorose in Europa, provocando l’accesa reazione delle organizzazioni per i diritti umani, del Vaticano, delle Nazioni Unite”.
Kimmelman però sottolinea come l’Italia, con il brusco crollo del tasso delle natalità e con l’invecchiamento della popolazione, difficilmente può sopravvivere senza lavoratori stranieri, dalle albanesi e romene che curano gli anziani, agli indiani che si occupano delle mucche da latte per il parmigiano reggiano”.
E scrive di come i timori di crimini da parte di immigrati siano stati infiammati da mezzi di informazione e da politici populisti, soprattutto dalla Lega Nord che per la campagna elettorale ha paventato per gli italiani un destino simile a quello degli indiani d’America.
Le stoccate non si risparmiano, e la successiva riguarda l’elezione a primo cittadino di Roma, città dai tanti stimoli culturali, del neo sindaco Gianni Alemanno, che nella sua campagna elettorale ha puntato tutto sulla lotta al crimine e all’immigrazione clandestina: “Si fatica a ricordare l’ultima volta in cui un candidato sindaco di Roma sia stato eletto senza alcun importante progetto culturale”.
Arrivano puntuali, ovviamente, riferimenti al paradosso che vuole che in Italia si stia vivendo lo stesso shock culturale che ci fu un secolo fa negli States, quando milioni di italiani, tra gli altri, emigrarono in America. Ma anche all’eco che media e politici danno ad episodi di criminalità dove sono coinvolti stranieri: come nel caso dell’omicidio della 47enne italiana Giovanna Reggiani, per opera di un rumeno, “che ha portato a un’ondata di razzismo contro i rumeni. Ma, in effetti, la criminalità complessiva non è aumentata dal 1991″.
Non mancano comunque segnalazioni di esempi di integrazione e di significative iniziative multietniche a Roma, “ancient magnet for foreigners”. Come la mostra al Museo preistorico etnografico Pigorini, appunto. O il programma di librerie multiculturali di Gabriella Sanna.
Ma l’interrogativo che il giornalista del New York Times si pone è: simili piccoli grandi sforzi continueranno? E l’interrogativo che invece andrebbe posto al cronista newyorkese è: ma non fu proprio l’amatissimo sindaco della Grande Mela Rudy Giuliani a inaugurare il modello della tolleranza zero, poi copiato e mutuato anche da molti primi cittadini italiani?

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