banda http://blografando.splinder.com

lunedì 25 agosto 2008

La storia (finita?) del movimento gay in Italia. Un libro di Gianni Rossi Barilli.

(Augie) Non comprarlo neanche a tre euro (trovato in una libreria di remainder) mi sarebbe sembrato davvero disdicevole (insomma, un pochino di cultura gay vogliamo farcela o no?), e così, a nove anni dalla pubblicazione (la prima edizione è datata maggio 1999), leggo finalmente “Il movimento gay in Italia” di Gianni Rossi Barilli. Ne sarà uscita un'ulteriore edizione nel frattempo? Ne dubito, e non solo per l’editore (Feltrinelli, sempre molto attento a far uscire quanto prima dal proprio catalogo i libri a tematica gay che pubblica), ma anche perché, insomma, che cosa mai si sarebbe potuto dire sul movimento gay in Italia degli ultimi 9 anni? Giusto recitarne il de profundis… Ma lasciamo perdere le tristezze del presente (o le mie considerazioni gratuite, che lasciano il tempo che trovano) e torniamo al testo di Rossi Barilli, che è utile, informativo e di piacevole lettura. Il libro non propone chissà quale nuova proposta interpretativa (meglio così, anche se l’interpretazione “standard” sul perché in Italia il movimento di liberazione gay sia nato così in ritardo – interpretazione secondo cui ciò sarebbe dovuto al fatto che in Italia, diversamente che negli altri paesi occidentali, gli atti omosessuali non sono mai stati sanzionati da precise norme del codice penale -, che l’autore accetta, è tutt’altro che pacifica, e sarebbe ora di ridiscuterla un po’), proponendosi molto opportunamente di raccontare innanzitutto i fatti più salienti, nella loro cronologica successione. Un grande pregio del testo è l’equanimità con cui l’autore realizza il suo racconto, nel riconoscimento dei meriti e delle ragioni di tutti i protagonisti di questa storia (viene riconosciuto il dovuto, senza polemiche, anche, per dire, ad un personaggio come Angelo Pezzana, individuo davvero pestifero, che ha speso gran parte delle energie profuse in una pluridecennale militanza gay nell’attaccare chiunque non la pensasse al cento per cento come lui).
Ad ogni modo, nonostante tutta la buona volontà dell’autore, la storia non può che iniziare dal riconoscimento del fatto che… si tratta più che altro di una non-storia. C’è infatti una constatazione da cui non si può non partire, e infatti Rossi Barilli parte da lì: “mentre in paesi come la Germania o la Gran Bretagna le prime esplicite battaglie civili a favore dei diritti delle persone omosessuali sono cominciate già alla fine dell’Ottocento, in Italia si è dovuto attendere fino a ben oltre la seconda guerra mondiale Il Fuori, la prima organizzazione gay italiana, viene fondato nel 1971 e fino ad allora si può parlare solo di poche iniziative isolate. Anche in seguito, però, il percorso della liberazione gay si rivela molto accidentato. Il progetto di costruire comunità visibili e dotate di un certo potere contrattuale, sul modello di quelle nate negli Stati Uniti e nei paesi del nord dell’Europa, non si realizza che in minima parte”. E qui Rossi Barilli prosegue il discorso rilevando il fatto che “questo accade innanzitutto per la scarsa propensione degli stessi omosessuali a uscire dalla clandestinità, o da un genere di riservatezza che le somiglia molto”. Ora, la rilevazione di questo fatto spiace ad alcuni: il farla infatti sarebbe un modo indiretto di “colpevolizzare” i gay per la condizione in cui si trovano in Italia, colpevolizzazione che sarebbe ingiusta oltre che crudele dato che i gay sono innanzitutto le vittime di una condizione in cui sono altri a volerli mantenere (la Chiesa, la classe politica …). A me pare che ciò che Rossi Barilli dice sia perfettamente sensato e anzi incontestabile, e che le riserve alla sua constatazione si basino più che altro su una confusione “linguistica”, diciamo così. Nel riflettere su un fatto possiamo infatti rilevarne le cause ed indagarne le ragioni: sono due cose diverse, e il fatto che ci siano (ci possano essere, possano essere indicate) delle ragioni (culturali, storiche ecc.) che “spingono” i gay a rimanere clandestini (spingono solo però, non costringono: gay infatti che hanno scelto di essere visibili ci sono, quindi nessuna “costrizione” e nessun determinismo), non toglie il fatto, davvero incontestabile, che a causare la mancata costruzione di comunità gay visibili è il non costituirsi dei gay in comunità gay visibili.
La constatazione che il movimento gay sia fondamentalmente sempre stato privo di “base sociale” non può che tornare in più punti del testo, essendo infatti la causa principale della sua costante debolezza e irrilevanza, tanto che, con una punta di amara ironia, Rossi Barilli può senz’altro affermare: “Secondo le stime più popolari, una persona su venti (c’è chi dice addirittura una su dieci) sarebbe prevalentemente omosessuale: ciò vuol dire che in Italia dovrebbero esserci almeno tre milioni di gay e lesbiche. Se ci sono, bisogna dire che non si fanno troppo notare. Il segno più tangibile di “masse” gay è una rete di discoteche e luoghi di incontro, presenti in tutte le grandi città e in molte di quelle medie, che in effetti aggregano molte decine di migliaia di persone. Si tratta tuttavia di una forma di visibilità molto discreta e spesso esclusivamente ricreativa, che finisce dove ricomincia la vita di tutti i giorni”.
Però, insomma, nonostante tutto, qualcosa è successo, e le 239 pagine del testo di Rossi Barilli dell’essere successo di questo qualcosa ne costituiscono appunto la documentazione. Che quel che è successo sia stato sempre interessante devo dire però di non crederlo… Gli anni 70 sì, per il movimento gay quelli sono stati anni interessanti, con il giganteggiare in essi della figura, per me circondata da un’aura di mito e di culto, di Mario Mieli; mi ha dato, come dire?, la sensazione di un riaprirsi dell’orizzonte nella mia mente il ripensare al suo uso “rivoluzionario” della “femminilità”, ora che quei meravigliosi deliri sembrano essere così lontani; cito Rossi Barilli: “La critica dei ruoli sessuali era radicale e concreta: il rifiuto dell’ideologia maschile poteva essere espresso in un ponderoso saggio teorico, o anche solo indossando un paio di tacchi a spillo. L’identità si conquistava trasformando in provocazione permanente la consueta e svalutata immagine dell’omosessuale effeminato. La femminilità, anziché nascosta, doveva essere urlata. Froci e checche dovevano dichiararsi con orgoglio. Trucchi e travestimenti potevano infine ben essere strumenti di lotta, come dimostrava nel modo più estremo Mario Mieli passeggiando in piazza San Babila con il vestito lungo e i gioielli – veri – della madre e comparendo con memorabili “abitini” nelle occasioni più svariate”. Ecco, i “militanti con le piume di struzzo” (i “milanesi”) sono per me, data la mia sensibilità camp, i più attraenti tra le varie “famiglie” costituenti il “magma” del movimento gay in Italia degli anni 70 (gli altri sarebbero, nella caratterizzazione di Rossi Barilli, i “seri rivoluzionari” e i “riformisti in doppio petto”, cioè, questi ultimi, i “torinesi” Pezzana e i suoi), e ho letto con grande gusto tutto il racconto delle loro vicende come, tanto per fare un esempio, la loro partecipazione nel 1975 ad un festa “del proletariato giovanile” che si tenne a Licola, vicino a Napoli (nella cronaca d’epoca di Giovanni Forti: “[… ] i milanesi scelgono la via della provocazione. Truccati in maniera violenta ed esagerata, con le paillettes e i lustrini dorati, vendono il loro giornale fissando la gente in maniera accusatoria dicendo: “Tu reprimi la tua omosessualità””. Dio se li amo) o, altro esempio, la vicenda del collettivo teatrale Nostra signora dei fiori che nel 1976 produsse il mitico spettacolo La Traviata Norma, ovvero: Vaffanculo… ebbene sì!
Ho trovato queste vicende (per quanto “minoritarie”, “velleitarie”, assolutamente legate ad anni diversissimi dai nostri e quindi non più proponibili, tutto quello che si vuole) estremamente interessanti, e il libro testimonia di altre cose interessanti accadute, ma fino a un certo punto, però. La sensazione, infatti, procedendo nella lettura, è che in Italia, con gli anni 80, gli anni del cosiddetto “riflusso”, per il movimento gay finisca più o meno tutto. Gli anni in cui altrove (in Europa, negli Stati Uniti, in “Occidente” in generale), dopo la fine della fase “rivoluzionaria”, parte un processo, che via via andrà sempre più consolidandosi, di “istituzionalizzazione” della minoranza omosessuale, processo che sfocerà negli anni 90 e nel nostro decennio in un fiorire di leggi in vari paesi che riconoscono a vario modo e titolo una serie sempre crescente di diritti alle persone omosessuali e alle coppie formate da persone dello stesso sesso, paiono essere in Italia anni in cui tutto si blocca e si impantana, senza riuscire a sfociare in alcunché di davvero significativo.
La storia del movimento gay torna insomma ad essere una storia europea, occidentale, e in questa storia l’Italia non sembra più entrarci granché. Dal punto di vista dell’Europa questa storia vivrà un momento memorabile nel 1994, quando l’8 febbraio il Parlamento europeo approva quello straordinario documento che è la risoluzione sui diritti dei gay e delle lesbiche, documento che è stato matrice di tante cose accadute dopo ovunque in Europa… fuorché, naturalmente, in Italia. E in fondo questo stato di cose anche Rossi Barilli lo riconosce, a volte apertamente a volte un po’ malcelatamente (dice in una sua pagina: “in Italia tutto quanto [quello che accade nel resto dei paesi occidentali] si riverbera in tono un po’ smorzato”… quando si dice l’understatement!). Rossi Barilli cerca comunque di vedere il “positivo” nelle diverse iniziative che nascono (il più delle volte per subito morire) in questi anni, e il suo testo certo documenta episodi anche belli, importanti (la “conquista” del Cassero a Bologna nel 1982, per esempio, uno dei rarissimi episodi in cui nella “guerra tra froci” con la Chiesa – che fece tutto quello che era in suo potere per impedire che ai gay bolognesi fosse assegnata quella sede - l’abbiamo spuntata noi), ma la sensazione generale è che nelle scadenze veramente importanti, nelle battaglie davvero decisive, non si sia potuto far altro che riconoscere la propria impotenza, il non poter davvero ottenere qualcosa.
Ma non dico altro su questa storia, che sarà poi anche una storia di endemiche penose contrapposizioni tra vari gruppi e gruppetti, con punte di ridicolo al di là di ogni decenza (penso ad esempio alle varie liti che portarono nel 1997 a organizzare due GayPride separati, che ovviamente andarono praticamente deserti entrambi), e davvero rimando al libro, che ha il merito, al di là di un disfattismo in fondo anche facile, di mostrare ciò che comunque è stato fatto.
Man mano che leggevo il libro ad ogni modo non riuscivo a non leggerci dietro, in filigrana, un’altra storia, forse perché chi è vincitore nel presente fa la storia, rende cioè, retrospettivamente, importante ciò che nel passato l’ha riguardato. Penso naturalmente alla Chiesa cattolica, che ha così fortissimamente vinto in Italia la sua battaglia per essere riconosciuta come l’istituzione che ha l’ultima parola su ciò che la legge può o non può dire e riconoscere nell’ambito dell’autonomia e della libertà degli individui. Retrospettivamente infatti pare difficile non pensare che gli anni 80, gli anni del “disimpegno” dopo la fine dei movimenti, siano stati gli anni in cui la Chiesa iniziava la sua battaglia di riconquista di una posizione di sovranità nello spazio pubblico, e decideva che la “questione omosessuale” fosse un luogo privilegiatissimo e sommamente favorevole in cui condurre questa battaglia. Nel 1986 verrà infatti pubblicata la famigerata lettera ai Vescovi Sulla cura pastorale delle persone omosessuali, e risale al 1992 la raccomandazione inviata dalla Congregazione per la dottrina della fede ai vescovi americani, dove apertamente si invitano i parlamenti a discriminare mediante la legge le persone omosessuali (“Vi sono ambiti”, afferma il testo, “nei quali non è ingiusta discriminazione tener conto della tendenza sessuale”). Queste prese di posizione, sempre più fortemente affermate e sostenute, hanno certamente costituito un freno enorme alla possibilità di arrivare anche in Italia ad un riconoscimento legislativo dei diritti delle persone omosessuali; ma direi di più: hanno contribuito a isolare le persone omosessuali non solo da qualsivoglia possibile referente politico, ma anche ad isolarli dal loro, come dire?, “contesto sociale”, con ciò che immaginabilmente ne è potuto conseguire anche a livello di benessere psicologico. Conseguentemente, quello che Rossi Barilli scrive a proposito di ciò che andava accadendo negli anni 90 (“si avverte una sensazione di isolamento di fronte agli attacchi che si moltiplicano…”), non è meno valido per l’oggi, anzi, forse oggi siamo anche al di là di questo: i gay oggi infatti paiono davvero non contare più nulla, essere totalmente fuori da qualsivoglia agenda politica, e la storia del movimento gay pare essere oramai un storia che non ci riguarda più, che non accade più qui insomma.
Dove siamo, allora? Che cos’è questo “grado zero” in cui siamo ora, fuori dalla storia, senza che paia possibile l'accadere di alcunché? Forse, mi viene da pensare, la situazione attuale ha almeno questo di “vantaggioso”: ciò che si può fare è solo la cosa più difficile, quella che, sempre e per tutti, risulta la più costosa, quella che più di tutte vorremmo evitare perché sappiamo benissimo che se la faremo la pagheremo: accettarci e renderci visibili.

Sphere: Related Content

Nessun commento: