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lunedì 17 marzo 2008

"Economia gay": Tabù e voglia di lobby. Ma in Italia resta un ghetto che arricchisce pochi.

Gli omosessuali si organizzano in rete. I modelli sono i gruppi americani costituiti in Citigroup e Ibm.
Le sfide della società aperta. Ancora difficoltà e discriminazioni in molti settori. Ma si moltiplicano le associazioni e i network su Internet.
(Il Corriere della Sera) Tabù (ancora tanti) e prime prove per «fare rete», o se si preferisce, per diventare una lobby come ce ne sono tante. Per pesare di più nel mondo degli affari e dell’economia. I gay, le comunità degli omosessuali, si mettono in movimento anche in Italia. Non molto tempo fa aveva fatto discutere la decisione della banca d’affari americana Lehman Brothers di dedicare una giornata di selezione a Hong Kong solo per gli omosessuali, con l’obiettivo di accaparrarsi i talenti migliori. In realtà, per le società d’oltreoceano tutto questo è qualcosa che non ha niente di speciale. «Negli Stati Uniti — dice Ivan Scalfarotto, responsabile delle risorse umane Citigroup in Russia, Ucraina, Kazakistan — esiste un’associazione, Out & Equal, con sede a San Francisco, che si preoccupa di promuovere il diritto all’uguaglianza di gay, lesbiche, bisessuali e transgender (Glbt) nei luoghi di lavoro. Tengono conferenze annuali in città diverse degli Usa per scambiarsi informazioni. In tutte le grandi banche, in Ibm, in Johnson & Johnson, esistono gruppi organizzati di Glbt. In Citigroup, per fare un esempio, esistono molte organizzazioni: Citi Pride, Citi Disability, Citi Parents (per i colleghi con figli), Friends of Citi Pride, Citi Roots. Si fa formazione sulla diversità, che viene considerata una ricchezza».

È attraverso organizzazioni come queste che la comunità omosessuale «fa network», come dicono negli Usa; cioè fa lobby. Una strada che è, invece, ancora agli inizi in Italia, dove anche le filiali delle grandi società internazionali si arenano e non replicano i modelli che abitualmente utilizzano altrove, anche in Europa.

Tranne casi rari, ma visibili come la moda, dove per alcuni c’è addirittura una sorta di discriminazione contraria, in Italia dichiarare il proprio orientamento sessuale è ancora quasi sempre un tabù, a maggior ragione nel lavoro e in certi ambienti conservatori come la finanza.

Secondo altri punti di vista, però, l’idea di lobby comincia a prendere corpo. «E’ naturale che tra di noi ci si conosca e che all’occorrenza ci si aiuti: se un progetto arriva da uno di noi, che facciamo più fatica ad affermarci, ha già in sé una certa possibilità di essere un buon progetto — dice Imma Battaglia, manager di un gruppo dell’informatica, da anni impegnata nella promozione dei diritti degli omosessuali e oggi alla guida dell’associazione Di’ Gay Project — Abbiamo tutti ben chiara la mappa del potere gay, ma non parlerei di un network formalizzato, quello non c’è ancora».

L’attenzione al tema, però, c’è ed è sempre crescente. Tanto che Franco Grillini, presidente onorario di Arcigay, parlamentare e candidato sindaco di Roma, è pronto a stampare «Pink dollar», «una sorta di Pagine gialle dell’economia, scritto insieme a un amico (sotto pseudonimo) che insegna storia economica. Sarà un libricino per fare la storia del rapporto tra gay e economia e mercato. Anche perché il contributo dato dagli omosessuali all’economia è molto maggiore del numero di omosessuali che ci sono nel Paese. Pensiamo soltanto alla moda, un comparto che da solo significa 600 mila posti di lavoro».

«Con il suo discorso di libertà, la moda ha dato un grande contributo all’affermazione dei diritti di gay e lesbiche — dice Beppe Modenese, presidente onorario della Camera della moda italiana, — Questa raggiunta normalità nella moda ha fatto sì che l’identità sessuale diventasse in un certo senso ininfluente: si viene scelti sulla base della professionalità e, visto che non c’è alcun bisogno di difendersi come può accadere in altri ambienti lavorativi, direi che non esiste una lobby gay».

Non c’è ancora, come dice Aurelio Mancuso, presidente di Arcigay, ma qualche tentativo di costituirla si sta facendo, anche se è «una cosa ancora molto embrionale». Il riferimento è all’esperimento lanciato da Glbtpower, associazione promossa da Sergio Canfora, autore televisivo, Claudio De Morais Costa, restyling d’interni, Luigi Smeraldi, make up artist, Lucia Schillaci, speaker radiofonica, e Massimo Berlolaccini, gestore di B&B. «Come idea siamo nati nel 2000 — dice Canfora, che è presidente dell’organizzazione — ma operiamo solo dal 2006. Realisticamente sappiamo che non si potrà parlare di una lobby ancora per una decina d’anni perché c’è molto timore a uscire allo scoperto come manager e professionisti. Ma oggi c’è tutta una parte del mondo gay che non si riconosce nei gay pride. Noi siamo neutri e vogliamo allargare la visuale, sosteniamo gli omosessuali ma non solo le loro cause». Glbtpower in qualche modo raccoglie l’eredità di un tentativo precedente, e fallito, che si chiamava Primonetwork. «Una piccola associazione — ricorda Canfora — che raggruppava solo dirigenti e manager di un certo livello. Organizzava incontri, cui si accedeva solo su invito, nei quali si discuteva di diversità e di management. Aveva un approccio molto americano e non ha funzionato». Tra i network oggi attivi, il presidente di Glbtpower ricorda il sito europeo www.6pc.info e il neonato www.cosmocircle.cc. A tutti si accede su invito e con password. Come si vede da questi esempi, e come il successo del portale Gay.it dimostra, lo strumento principe della comunità omosessuale è Internet.

Anche il mondo della ricerca e dell’università ha posto di recente la sua attenzione sulle comunità omosessuali. «Le città dove c’è maggior sviluppo dell’innovazione economica e tecnologia sono le città che manifestano un’apertura culturale nell’accettazione del diverso e dell’omosessualità», dice Irene Tinagli, ricercatrice alla Carnegie Mellon University. Esperienze che riporterà a breve in un libro in uscita per Einaudi («Talento da svendere») dove Tinagli usa «l’indicatore dell’apertura mentale e culturale di una comunità, di una società, perché è ancora oggi la più difficile da affermare, soprattutto in Paesi tradizionalisti e cattolici come l’Italia».

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