
A metà tra opera cinese e opera rock, ma senza espressionismi melodrammatici, "Monkey" racconta il viaggio in nove tappe del Re Scimmia, nato dall'esplosione di un uovo sulla Montagna dei Fiori e dei Frutti (a cartone animato su un grande schermo). Accompagnato dal monaco buddista Tripitaka (vero protagonista del romanzo di Wu Cheng'en), da un Cavallo Bianco (avatar del Principe Dragone), dal porcino e lascivo Porcelet, e da Sablet (monaco in disgrazia che Hewlett disegna come un malinconico Amleto), il Re Scimmia percorre i cinque continenti e attraversa i quattro elementi.
Ogni scena è stupefacente per colori, per energia, per virtuosismi atletici. Lo spazio è utilizzato al massimo, cielo compreso: la bellissima dea Guanyin scende volando (e cantando) dal loggione fino sul palco; le sette creature celesti sono appese in alto e non cessano di fare evoluzioni assieme a cinque piccole contorsioniste al centro della scena; la violenta Principessa del Ventaglio di Ferro (nel cui stomaco il Re Scimmia si infila grazie a uno strepitoso video cartoons a raggi X di Hewlett) affronta l'avversario saltando per aria come nei film di Hong Kong e Taiwan. Alla fine del viaggio i quattro personaggi, Re Scimmia in testa, arriveranno in Paradiso al cospetto di un enorme Buddha (che aveva già imposto una mano sul Re Scimmia, imprigionandolo per cinque secoli).
Il Cavallo tornerà a essere il Principe Dragone e gli altri avranno un titolo onorifico. Il Re Scimmia diventerà il "Buddha Vittorioso nei Combattimenti" e riceverà gli applausi di un teatro (già diretto da Stephane Lissner) fino a due anni fa molto classico, ma oggi, grazie alla gestione di Jean-Luc Choplin, aperto a coproduzioni di questo tipo ("Monkey", a Parigi fino al 13 ottobre, è coprodotto con il Festival di Manchester e la Staatsoper di Berlino).
Appena scesi dal palco dopo gli applausi, Albarn e Hewlett (entrambi nati nel ¿68, anno della Scimmia) raccontano il loro viaggio in Cina attraverso scene degne dell'opera: «Non smettevamo di stupirci della immensa differenza che c'è tra la Cina urbana e quella rurale» dice Albarn, frequentatore curioso di musiche lontane, dal Mali a Cuba, un padre studioso e insegnante di cultura islamica. «Nella partitura ho cercato di mettere quello che ho ascoltato, senza però perdere la mia integrità musicale. Ho messo suoni di automobili, di cantieri di costruzioni, di generatori, tutta la cacofonia della Cina urbana. E ho messo il rumore degli insetti, la musicalità della lingua, i ritmi della vita rurale». Un video delle prove ritrae Albarn molto impegnato in due compiti precisi: ottenere il perfetto bercio dagli attori-scimmia e convincere le soavi attrici cinesi a cancellare dal volto il tipico, cortese sorriso. Troppo espressionista.
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